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mercredi, 08 décembre 2010

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Yuan e rubli negli scambi bilaterali. Paolo Manasse: "Ricerca di stabilità e di autonomia da Washington. Ma non è guerra delle valute"

Cina e Russia hanno deciso di effettuare le transazioni commerciali bilaterali nelle proprie valute (yuan-renminbi e rublo), rinunciando al dollaro come moneta universale di scambio.
L'anno scorso, il commercio tra i due Paesi è stato stimato attorno ai quaranta miliardi di dollari. Si pensa che a fine 2010 ammonterà a sessanta miliardi.
Nell'accordo siglato da Vladimir Putin e Wen Jiabao a San Pietroburgo il 24 novembre, molti hanno visto un capitolo di quella "guerra delle valute" che agita sia i mercati finanziari sia la geopolitica mondiale, con il rinnovato interesse dell'amministrazione Obama per l'Estremo Oriente e la crescita record della Cina, nuova superpotenza.
PeaceReporter ha chiesto un parere a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna, docente di Macroeconomia all'Università Bocconi di Milano.

Come si spiega la decisione di Russia e Cina?

C'è un motivo economico e ce ne è uno politico.
Dal punto di vista economico, siamo in un periodo di volatilità dei cambi legato alla crisi. Quando si parla di volatilità, ci si riferisce soprattutto al rapporto tra euro e dollaro. La Russia ha un grande volume di scambi con l'Europa, idem la Cina che ce l'ha anche con gli Usa, quindi sono esposte ai rischi di questa volatilità. E' probabile che almeno nello scambio bilaterale vogliano tutelarsi dai rischi di cambio delle valute, utilizzando le proprie.
L'aspetto politico sta nel fatto che soprattutto la Cina, così facendo, afferma la propria sovranità anche valutaria, mostrando di poter fare a meno del dollaro, cioè contrastando il privilegio tutto statunitense di battere moneta. Può essere letto in chiave di sfida.

C'entra con la cosiddetta "guerra delle valute"?

La guerra delle valute dura da anni. Muove dall'accusa Usa secondo cui la Cina terrebbe la propria moneta artificialmente bassa per guadagnare competitività. Nei meccanismi di mercato, alla domanda molto alta di merci cinesi dovrebbe corrispondere anche una domanda molto alta di yuan per pagarle. La conseguenza naturale dovrebbe essere la crescita di valore della moneta cinese e il deprezzamento del dollaro. Qui invece interviene la banca centrale cinese comprando dollari e vendono yuan per calmierarne il prezzo. Le conseguenze sono il valore basso dello yuan e un accumulo di dollari nelle riserve cinesi.
E' comunque una faccenda che riguarda soprattutto gli Usa, perché sono loro ad avere un enorme deficit commerciale con la Cina. L'Europa molto meno.
Tecnicamente, la scelta di Russia e Cina non c'entra molto con la guerra delle valute.
Anzi, potrebbe avere come effetto la riduzione della domanda di dollari e quindi l'indebolimento della valuta Usa. Chiaramente, non è scontato che ci sia un simile effetto, dipende da quali saranno i volumi degli scambi tra Cina e Russia. Ma comunque l'accordo non può essere visto come un tassello della guerra delle valute.

C'è anche il tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, riducendo la parte in dollari?

Il monopolio del dollaro come moneta di riserva [cioè la valuta con cui le banche centrali dei diversi Paesi accumulano le proprie riserve, date generalmente dal surplus commerciale, ndr] è già finito con l'avvento dell'euro. In genere le banche centrali tengono un portafoglio abbastanza bilanciato, diversificato, per evitare che fluttuazioni nel mercato dei cambi provochino problemi. Non si punta mai al cento per cento su una sola valuta.
In questo caso, mi sembra che si punti più a evitare l'impatto delle fluttuazioni sulle transazioni, sul commercio. A parte la valutazione politica, certo, cioè l'affermazione di indipendenza da parte della Cina.
Se un cinese esporta merci facendosi pagare in dollari o euro, e una delle due monete crolla, ci perde un sacco di soldi. Dal momento in cui si fanno le transazioni al momento in cui vengono liquidate, si rischia. Di solito ci si assicura con il mercato a termine: uno vende i dollari di domani a un prezzo che conosce oggi. Ma se fa gli scambi con la moneta nazionale, ha risolto il problema alla radice.

Gabriele Battaglia

lundi, 06 décembre 2010

The Hermit Kingdom

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The Hermit Kingdom

Matt PARROTT

Ex: http://www.counter-currents.com/

North Korea is perhaps more than any other nation on Earth, completely out of step with our global cosmopolitan overlords. On some level, the fascination in racialist circles is understandable, as the regime is defiantly rejecting foreign influence, celebrating their shared identity, and (most importantly for us) embracing their racial heritage. It’s certainly presented in a distorted light by our government and media.

But North Korea really sucks. Kim Jong-il is hardly a fascist ruler in the Western tradition, with habits and hobbies more reminiscent of Mugabe than Mussolini. He’s a terrible steward of his people, indulging in the sort of material excess that Puff Daddy’s entourage would find embarrassing. For instance, when traveling through Russia on his own private train, he takes breaks for airlifted lobster dinners.

For all the talk of rejecting modernity, he’s a basketball fanboy who delighted in receiving a basketball signed by Michael Jordan on a state visit from Madeleine Albright. He’s seen more mainstream American movies than any of us have. His family’s attempt to replace his country’s traditional beliefs with a bizarre “cult of personality” is about as far from any Tradition as one can get.

However, as awful as North Korea is, and it’s about as awful as it gets, it has managed to retain its ethnic identity intact. It’s hard to say how much of this is actually due to ideology (his cultural tastes leave me skeptical). I suspect it’s for the same reason that my hometown has remained ethnically homogeneous: poverty.

Just as God strikes his favored females with ugliness to protect their virginity, he strikes his favored communities with poverty to protect their racial purity. Had the good people of Michigan chased Henry Ford out of the state with pitchforks and burned their factories to the ground, the state would still be a safe and solvent replica of its original settlers’ Nordic homeland.

South Korea, Japan, Taiwan, and China are increasingly under pressure to solve their “demographic problem” of growing old by swallowing the spider of third world immigration. North Korea has been under no such pressure. Even African war refugees would rather starve in a tent city in a tropical climate among their own than starve in North Korea.

As awful as North Korea is, the rising tide of color will part like the Red Sea around it. As awful as North Korea is and as maniacal as Kim Jong-il is, a nation that doesn’t do away with itself can redeem itself later. It can have a future. Fortunately, there’s no dichotomy here. We can borrow the one thing that North Korea’s doing right, then abandon our colonial holdings in Japan, South Korea, and Taiwan so the Chinese won’t feel the need to prop up this madman and his buffer state.

vendredi, 03 décembre 2010

Un coup d'Etat civil pro islamique à Ankara...

Un coup d'État civil pro islamique à Ankara...

Par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: L'Insolent

  

Les conséquences de la réunion de l'Otan à Lisbonne directes et indirectes, ne manquent pas de se faire sentir. Et cela commence par l'un des principaux alliés, la Turquie. Les années 1946-1950 avaient vu la mise en place, dans ce pays, de gouvernements démocratiques formellement civils. Plusieurs coups d'État les ont renversés successivement. Or pour la première fois depuis 60 ans, deux ministres (1) ont pris la décision d'y mettre à pied trois généraux. (2) Ceux-ci se trouvent impliqués dans le cadre du complot Bayloz remontant à 2003. Le chef du parti laïc de gauche CHP soutient de façon significative les trois putschistes, qui font appel aux tribunaux spéciaux. Cela s'est produit la semaine écoulée, qui suivait immédiatement la rencontre de l'alliance occidentale.

S'agissant de tout autre pays, on trouverait cette situation critique du point de vue journalistique et conjoncturel. L'événement serait couvert de façon dramatique par les gros moyens d'information. Et on jugerait aussi cette normalisation, sur le fond, parfaitement conforme aux principes de la gouvernance mondiale.

Il n'en va pas de même dans une société où l'élément militaire joue, ou plutôt jouait jusqu'à une date très récente, un rôle central dans tous les réseaux de pouvoir. Rappelons ainsi que le poids économique de la couche dirigeante de l'armée issue du kémalisme, en fait le principal partenaire apprécié en France par les milieux se disant de gauche et non moins laïcistes.

Les dirigeants civils, eux-mêmes disciples de l'islam moderniste (3), ont obtenu à Lisbonne de la part des Américains et des autres alliés une concession qu'ils jugent essentielle. On leur a accordé que l'Iran ne soit pas explicitement mentionné comme adversaire dans le cadre de la mise en place du bouclier anti-missiles de l'Alliance atlantique. Dans ce contexte, ils se sentent en mesure de rogner un peu plus les prérogatives des militaires laïcs.

On pourrait donc aboutir au renversement complet du rapport de forces établi par les jeunes-turcs en 1909, puis par le kémalisme en 1923, un concept paradoxal : un "coup d'État" civil.

En apparence, formellement, si cette évolution aboutit, elle ne rencontrera que des approbations, au moins dans un premier temps, sur la scène internationale.

Pour le moment d'ailleurs un seul pays, pratiquement, semble s'y opposer, émettre des réserves, agiter et alerter plus ou moins discrètement ses propres éléments d'influence. Il s'agit de l'État qui avait tissé depuis le début des années 1950 des liens très solides de coopération avec l'armée d'Ankara. Pour le moment, en effet, le gouvernement israélien actuel redoute à plus ou moins juste titre une coalition régionale des pays musulmans. Ceci ne s'était jamais produit depuis la fondation d'Israël. L'État hébreu, de guerre en guerre, et pendant ces périodes intercalaires que l'on appelle, un peu imprudemment peut-être, "la paix" avait toujours su séparer les deux puissances musulmanes régionales non arabes, l'Iran comme la Turquie, et s'employer efficacement à diviser les Arabes entre eux. Sur ce dernier terrain il n'a pas rencontré trop de difficultés.

Dans sa chronique de Zaman Today du 27 novembre M. Ergun Babahan prend à cet égard à partie l'ancien ambassadeur américain en Turquie M. Eric Edelman. Il en fait à la fois le porte-parole à Washington d'une certaine coulisse et il l'accuse de "vivre dans un monde virtuel", de se montrer "coupé du réel". Le vrai reproche porte sur l'évaluation de la durée, que ses partisans jugent illimitée, du gouvernement turc actuel.

De ce dernier point de vue nous ne disposons à vrai dire d'aucune boule de cristal. Nous les laissons au Quai d'Orsay. Contentons-nous des faits.

Lors de la sortie très spectaculaire de Erdogan à Davos en janvier 2009, puis encore lors des incidents de la flottille Mavi Marmara en mai 2010, on a pu remarquer que le gouvernement d'Ankara ne craignait pas désormais de s'aliéner les réseaux pro-israéliens du monde entier. Aux Etats-Unis, où il réside, remarquons d'ailleurs que Fethullah Gülen tient des propos apaisants. Certains observateurs mal informés ou naïfs, comme M. Gurfinkel dans Valeurs actuelles, les prennent ou tentent de les faire prendre à leurs lecteurs pour argent comptant.

Or, désormais, le quotidien officieux Zaman est monté d'un cran dans la séparation : on y met en accusation l'influence sioniste en Amérique du nord. Personne ne peut croire inconscients de la gradation, les professionnels de la communication qui fabriquent ce journal, très proche du pouvoir et techniquement très bien fait. Y compris dans l'usage des mots, il ne nomme plus d'ailleurs désormais ses adversaires pour "sionistes", il revient à un registre sémantique qui servait beaucoup à la charnière des XIXe et XXe siècles.

Or, parallèlement, les dirigeants d'Ankara haussent également le ton dans leurs négociations avec l'Europe. Ils jugent en effet que la défense du continent a été confirmée ces dernières semaines comme dépendant intégralement du bon vouloir de Washington. Plusieurs longues analyses officieuses confirment ce fait, pour tout observateur lucide, malheureusement évident. (4) Il semble pour nous humiliant, mais pour les Turcs réconfortant, que l'Union "européenne", les guillemets me paraissent désormais s'imposer, persiste à ne penser son destin qu'en tant que grosse patate consommatique.

Représentée au plan international par les glorieux Barroso, Van Rompuy et Lady Ashton l'organisation bruxelloise des 27 petits cochons roses se préoccupe plus de sauver ses banquiers que de défendre ses ressortissants.

Le projet "Eurabia" a été décrit (5) comme préparant pour les prochaines décennies, au nord de la Méditerranée la situation de dhimmitude que subissent depuis des siècles les chrétiens d'orient. Ce processus de domestication des peuples par la trahison de leurs élites économiques semble donc en bonne voie.

Les ennemis de la liberté si actifs contre notre continent s'y emploient dans les coulisses de Bruxelles.

En professionnels de la conversion par conquête, je ne doute pas que les islamistes turcs observent leurs proies, qu'ils l'hypnotisent par leurs mots d'ordre et qu'ils se régalent de leurs faiblesses. On peut cependant encore s'y opposer. (6)

 

Notes

 

1.                   Il s'agit des ministres de l'intérieur Bechir Atalay et du ministre de la Défense Vecdi Gönül

2.                   Les militaires limogés sont un général de gendarmerie, du général Abdullah Gavremoglou et du major Gürbüz Kaya.

3.                   Nous donnons à ce sujet quelques précisions dans L'Insolent du 23 novembre "Les dirigeants turcs vrais islamistes et faux bisounours".

4.                   cf. les analyses publiées dans Zaman les 24 et 27 novembre

5.                   cf. le livre de Bat Ye'or "Eurabia, the Euro-Arab Axis" 2005 ed. Farleigh Dickinson University Press, version française "Eurabia, l’axe euro-arabe" 304 pages 2006 éd. Jean-Cyrille Godefroy.

6.                   J'aurais le plaisir de signer mon livre "La question turque et l'Europe" au prochain salon du livre d'Histoire le dimanche 5 décembre. Mais vous pouvez aussi dès maintenant l'acquérir directement sur le site des Éditions du Trident. Rappel : il est plus courtois vis à vis des organisateurs, pour les personnes qui se rendraient à ce salon d'acquérir les ouvrages sur place.

mardi, 30 novembre 2010

La Chine et la Russie abandonnent le dollar comme devise de leurs échanges commerciaux

La Chine et la Russie abandonnent le dollar comme devise de leurs échanges commerciaux

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La Chine et la Russie ont convenu de ne plus utiliser le dollar dans leurs échanges commerciaux mais leur propre devise, ont annoncé mardi le Premier ministre chinois, Wen Jiabao et son homologue russe, Vladimir Poutine, à l’issue de la quinzième rencontre de haut-niveau entre les deux nations.

Les deux dirigeants ont déclaré que cette décision reflétait un renforcement des liens entre Pékin et Moscou et n’était pas destinée à remettre en cause la devise américaine mais à protéger leurs économies respectives.

Par le passé, la Chine et la Russie utilisaient dans leur commerce bilatéral d’autres devises, dont le dollar, mais la crise financière internationale et la baisse du billet vert ont conduit les deux parties à considérer une autre alternative.

 

La rouble est actuellement la sixième devise étrangère, après le dollar, l’euro, la livre Sterling, le dollar de Hong Kong et le ringgit malais à être autorisée par la Chine dans ses échanges commerciaux, annonce le Moscow Times.

Le China Foreign Exchange Trade System, le régulateur chinois d’échanges commerciaux avec l’étranger, a indiqué dans un communiqué que cette décision permettra de réduire les risques et de faciliter le commerce bilatéral entre la Chine et la Russie.

La première transaction commerciale de cette nouvelle donne a eu lieu lundi et concerne l’Industrial & Commercial Bank of China Ltd. et la Bank of China Ltd., pour un montant d’un million de yuans (151.000 dollars), selon Bloomberg.

La National Bank of China évalue un yuan à 4,6 roubles pour le départ de ces nouvelles régulations, annonce RT.

Cette annonce conjointe est perçue comme le résultat d’une augmentation des échanges commerciaux entre les deux pays. Durant les dix premiers mois de l’année 2010, le volume global des échanges a atteint 45,1 milliards de dollars, soit une hausse de 43,4% par rapport à la même période, l’année passée.

Les discussions entres les deux pays devraient maintenant porter sur les prix du gaz naturel importé par Pékin et que les Chinois espèrent réviser à la baisse…

Tout sur la Chine

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Article lié :

La Chine et la Russie éjectent le dollar

Le Premier ministre chinois Wen Jiabao et son homologue Vladimir Poutine ont annoncé, à l’issue de leur rencontre du 23 septembre à Saint-Pétersbourg, que le dollar n’est désormais plus la monnaie utilisée pour leurs échanges commerciaux bilatéraux.

C’est la première fois que le dollar est ainsi déréférencé par deux puissances économiques majeures. La première fois, mais peut-être pas la dernière… Alors que les Etats-Unis, noyés dans les déficits, tentent de relancer leur économie et que la Fed révise à la baisse ses prévisions de croissance.

Le rouble et le yuan servent maintenant à régler les échanges commerciaux bilatéraux, se substituant au dollar, utilisé par la Russie et la Chine à ce jour. Le Premier ministre russe le confirme : « Le rouble et le yuan ont déjà commencé à se négocier sur les marchés interbancaires des deux pays. Dans une étape ultérieure, le renminbi sera lui aussi utilisé ». Et le ministre russe des Finances Alexeï Koudrine, d’enfoncer le clou : « Le yuan pourrait devenir une monnaie de réserve au cours des dix prochaines années ».

Les deux pays ont également signé un accord pour renforcer leur coopération dans les secteurs de l’aviation, de la construction ferroviaire, de l’énergie y compris le nucléaire. Le document couvre également les questions douanières et de propriété intellectuelle. Wen Jiabao a salué cet accord, déclarant que « le partenariat stratégique entre les deux nations avait atteint un niveau sans précédent ».

Le moniteur du commerce international

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Autre article lié :

Poutine appelle à contrer le « monopole excessif » du dollar

Le premier ministre russe Vladimir Poutine, en visite à Berlin, a qualifié l’euro de monnaie stable et appelé à renoncer au monopole excessif du dollar en tant que devise de réserve, rapporte vendredi le correspondant de RIA Novosti.

« On observe actuellement des problèmes au Portugal, en Grèce et en Irlande, l’euro chancelle quelque peu, mais, somme toute, c’est une bonne devise mondiale, une monnaie stable », a indiqué le chef du gouvernement russe lors d’un forum économique réunissant les dirigeants des plus grandes entreprises allemandes.

« Le monopole excessif exercé ces derniers temps par le dollar en tant qu’unique monnaie mondiale de réserve était à mon sens mauvais, et nous devons y renoncer. C’est mauvais pour l’économie mondiale. Cela l’a déséquilibrée », a estimé M.Poutine.

Le forum économique berlinois a été organisé par le journal allemand Süddeutsche Zeitung.

Ria Novosti

dimanche, 28 novembre 2010

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Les dirigeants turcs: vrais islamistes et faux bisounours

Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

erdogan-davutoglu-hasa-hz_-peygamber-mi-1011101200_l.jpgOn peut reprocher, certes, beaucoup de choses aux dirigeants turcs mais on doit leur reconnaître une qualité. Ils se préoccupent avant tout, pour ne pas dire exclusivement, de l'idée qu'ils se font du destin de leur pays.

On l'a vu encore à la faveur des réunions de Lisbonne du 20 novembre. Beaucoup d'observateurs croient découvrir une dérive les éloignant quelque peu de la vieille alliance atlantique. Mais en fait plus on analyse leur action et plus on finit par en considérer le sérieux.

I. Quelques mots d'abord sur le pouvoir civil en Turquie

Il existe bien évidemment, des nuances, des débats et même des contradictions parmi les dirigeants politiques d'Ankara et au sein des élites d'Istanbul.

Les détenteurs du pouvoir politique civil actuel se situent dans la mouvance d'un courant islamique précis. Ne les confondons ni avec les terroristes qui ont ouvertement déclaré la guerre au monde occidental, ni même avec les rétrogrades "salafistes" rêvant de revenir au monde de ceux qu'ils appellent leurs pieux ancêtres. Ce courant d'idées a toujours voulu rénover, moderniser un pays, et ceci dès la fin de l'Empire ottoman. La doctrine remonte Saïd Nursi et aux "nourdjous" (1). Son réformisme s'oppose à celui des jeunes-turcs et à leurs continuateurs actuels qui brandissent le drapeau du kémalisme et de sa laïcité. Essentiellement croyant, il entend refaire de sa patrie une grande puissance en s'appuyant sur l'islam et en sortant celui-ci de son archaïsme. Il tentera de convaincre, l'un après l'autre, les maîtres du pouvoir, à commencer par le sultan. Il s'adresse à une nation fondamentalement différente des peuples du Proche-Orient, soumis aux sultans-califes de Constantinople à partir du XIVe siècle. Son espace de rêve va "de l'Adriatique [et c'est en cela qu'il met l'Europe en danger] à la Muraille de Chine". Il se reflète donc aujourd'hui dans le parti "AK" qui tient le gouvernement [Ergogan] et la présidence de la république [Abdullah Gül]. Son journal "Zaman" constitue la meilleure source de données sur le pays. est inspiré depuis des années par Fethullah Gülen. Plusieurs fois arrêté dans son pays natal pour ses activités anti-laïques, celui-ci est depuis 1999 installé aux États-Unis. Certes ce chef de file se prononce, par exemple, pour le dialogue interreligieux et contre le terrorisme.

Mais il faut la naïveté, et l'ignorance sans faille des responsables occidentaux, pour le définir comme "modéré". D'ailleurs, on se souviendra que naguère cette étiquette passe-partout servait déjà à désigner les Saoudiens, mesurés certes, mais seulement dans leur modération. Pour l'avenir comprenons avant tout que ce pouvoir agit et agira en toute circonstance pour réislamiser le pays à long terme, notamment par le biais de l'éducation.

II. Les Turcs participaient donc, comme tous les autres pays membres du pacte, à la réunion de l'Otan qui s'est tenu à Lisbonne le 20 novembre.

Le traité fondateur a été signé en 1949. Il tendait alors à répondre au "coup de Prague" opéré par les Soviétiques l'année précédente. Contemporain de l'écriture par Jules Monnerot de sa "Sociologie du communisme" (2), il souffre, – par rapport à cette analyse puissante, qui vaut aujourd'hui encore pour comprendre l'entreprise islamiste, – d'une bien plus forte obsolescence.

En particulier, on se réunissait entre alliés de l'OTAN, puis on rencontrait les dirigeants russes pour adopter le "nouveau concept stratégique" impulsé par la diplomatie des États-Unis.

Celle-ci s'accroche évidemment encore, sous l'impulsion de Hillary Clinton, à l'idée d'une "alliance avec les musulmans modérés". Soulignons à cet égard que cette doctrine a notamment permis le développement, avec le soutien américain, de l'Organisation de la conférence islamique, qui réclame depuis 1970 "la libération de Jérusalem" en vue de laquelle elle a été constituée. Ceci tend sans doute à une convergence politico-financière avec les émirs du pétrole. En revanche il ne semble pas besoin de poser au spécialiste de la politologie new-yorkaise pour saisir les forces qui s'y opposent. Elles exercent une influence plus notoire encore chez les élus du parti démocrate qu'au sein des républicains.

De nombreuses et grandes questions préoccupaient les intervenants.

Selon les pays, et selon les opinions, les médias ont pu mettre ainsi l'accent sur l'évolution du conflit en Afghanistan, sur le désir d'en sortir, sur l'intervention d'unités blindées sur le terrain de ce conflit, sur la lutte anti-terroriste en général, ou sur la mise en place d'un bouclier anti-missiles destiné à lutter contre le danger nucléaire des États-voyous, désignant la Corée du nord et l'Iran.

Dans ce contexte, comment ne pas comprendre le désir des principaux participants d'associer la Russie aux efforts de l'alliance occidentale. Malgré les difficultés des dernières années, certains voudraient tenir pour un simple contretemps l'intervention dommageable contre la Géorgie et les pressions de Moscou sur ce qu'on y appelle "l'étranger proche". Ce rapprochement fait partie des évolutions incontournables à [plus ou moins long] terme.

III. Les réserves turques

On ne trouve cependant jamais de si bonne ambiance qu'on ne puisse gâcher. Cette roborative constatation du regretté Witold Gombrowicz répond à l'affirmation un peu utopique chère au ministre turc Ahmet Davutoglou, qu'on ne peut énoncer autrement qu'en basic english "no problem with out neighbours".

Avant, pendant et après la réunion de Lisbonne, Abdullah Gül, accompagné de son épouse voilée, faisait part (3) des réserves que son pays pose à l'évolution "globale" de l'alliance. À son retour il déclarait avoir "sauvé" les principes fondateurs défensifs de l'organisation. Ce disant, du reste, il ne semble pas avoir pris connaissance du traité d'origine qui, certes, prévoit une intervention en cas d'attaque contre un quelconque des alliés, ses navires ou ses aéronefs, mais fait également référence à la démocratie. L'Espagne franquiste en était tenue à l'écart. L'évolution actuelle de l'Alliance correspond à une nécessité. Il se révélera de plus en plus difficile à Ankara de vouloir ménager ses relations avec divers pays islamistes, et notamment avec l'Iran

À Lisbonne le fossé apparu depuis 2003 avec l'arrivée au pouvoir de l'équipe Erdogan-Gül, a continué de se creuser avec l'occident.

M. Gül a particulièrement voulu marquer ses distances avec l'Europe. Son ondoyante diplomatie continue à marteler son contentieux avec un membre de l'Union européenne, la république de Chypre. Il la rend toujours responsable majeur des nombreux blocages et déboires de la candidature, à laquelle on fait pourtant mine d'accorder de moins en moins d'importance.

Du point de vue européen on doit donc mesurer les dangers.

Rappelons les.

Le plus ancien péril, d'ordre territorial, porte traditionnellement sur les confins balkaniques de notre continent.

Aujourd'hui cela pèse sur l'archipel grec de la mer Égée, sur la Thrace occidentale ou sur une partie de la Bulgarie, où la Turquie revendique son droit de protéger les "pomaks". Ne doutons pas non plus que les orthodoxes des Balkans ne doivent se faire aucune illusion quant au soutien à attendre des occidentaux. Qu'il s'agisse des Américains, des Européens, des Britanniques ou même des Russes, personne ne lèvera le petit doigt pour les défendre en dépit de toutes les assurances théoriques du droit international.

Or le fait même que le Dr Ekmeleddin Ihsanoglu, secrétaire général turc de l'Organisation de la conférence islamique depuis 2004, ait fait inscrire (4) le "soutien aux musulmans" des Balkans comme objectif mondial des 56 pays membres souligne la réalité des menaces qui pèsent à terme sur les deux États européens limitrophes de la Turquie et sur la région.

Pendant de nombreuses années Bülent Ecevit était ainsi apparu comme le principal porte-parole de la gauche républicaine turque. En 1974, à la tête d'un gouvernement auquel s'associa le vieux chef islamiste Necmettin Erbakan, il commence par supprimer l'interdiction de la culture du pavot en Anatolie. Puis il envahit Chypre en invoquant son droit d'y protéger la minorité turque. Ceci en fait pendant quelque temps une sorte de héros national.

Or, c'est seulement en septembre 2002, sur la chaîne turque TRT que Bülent Ecevit le reconnut lui-même, pour la première fois depuis plus d'un quart de siècle. Cette occupation par l'armée d'Ankara en 1974 du nord de la république de Chypre, et qui dure encore, correspondait exclusivement à des motifs stratégiques. Autrement dit tous les arguments en faveur des Chypriotes musulmans servaient de simples prétextes. Cette minorité représentait 18 % de la population de l'île, colonie de la Couronne britannique. Les Anglais avaient cru bon de l'organiser et de l'instrumentaliser pour contrecarrer, après la seconde guerre mondiale, la revendication des Grecs. (5)

Mais les périls se concentrent de plus en plus sur d'autres dossiers et notamment sur l'influence que la Turquie exerce et exercera sur les communautés immigrées, revendiquant l'ensemble des gens supposés "d'origine musulmane", dans la vie politique de plusieurs pays en manipulant le poids électoral et le chantage du communautarisme.

On ne peut donc pas évaluer jusqu'où ira sa dérive hors de l'Otan.

On doit mettre dès aujourd'hui un terme à cette incongruité de la candidature à l'Union européenne. (6)
JG Malliarakis

2petitlogo

mardi, 23 novembre 2010

Aspetti religiosi e storici del Tibet

Aspetti religiosi e storici del Tibet

La storia documentata di questo popolo risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente

Gianluca Padovan

Ex: http://www.rinascita.eu/ 

Tibet.jpgIn questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.


Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa, avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero, abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico.


La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.


Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione: “Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2


L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3


Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito».4


Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano”.5

 
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6

 
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati”.8


Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.


18 Novembre 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4991

jeudi, 18 novembre 2010

Türkei: Oberster Religionswächter muss abtreten

Oberster Religionswächter muß abtreten

 Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Diyanet-Chef Ali Bardakoglu: Wegen zu liberaler Ansichten zum Rückzug gezwungen Foto: Wikipedia/Elke Wetzig

ANKARA. Der Chef der türkischen Religionsbehörde (Diyanet), Ali Bardakoglu, muß nach einem Streit mit der Regierung sein Amt aufgeben. Grund sei dessen liberale Auslegung des Islams, berichtet die Welt unter Berufung auf die türkische Tageszeitung Milliyet.

Der oberste Relgionswächter hatte der türkischen Führung eine klare Stellungnahme zum Streit um das islamische Kopftuch verweigert. Die radikalislamische Regierungspartei AKP will das in der laizistischen Türkei herrschende Kopftuchverbot auflockern, was Kritiker als weiteren Schritt zu einer Islamisierung der türkischen Gesellschaft sehen.

Kopftuch für Frauen keine islamische Pflicht

Bardakoglu hatte das Tragen des Kopftuchs lediglich als die persönliche Entscheidung der Frau und nicht als islamische Pflicht bezeichnet. Auch der Genuß von Alkohol sei zwar im religiösen Sinne eine Sünde „egal ob am Steuer eines Autos oder in den Bergen“, jedoch sei es eine politische Frage, wann er eine Straftat darstelle.

Erst vor kurzem sorgte Bardakoglu auch außerhalb der Türkei für Aufsehen, als er überraschend ankündigte, christliche Gottesdienste in der St.-Pauls-Kirche in Tarsus zuzulassen. Gleichzeitig bekannte sich der Diyanet-Chef zur Sicherung der Religionsfreiheit als Aufgabe seiner Behörde.

„Radikale Veränderungen“ angekündigt

Womöglich könnte sich dies rasch ändern. Der türkische Staatsminister Faruk Celik kündigte bereits „radikale Veränderungen“ in der Religionsbehörde nach dem Abtritt Bardakoglus an. Nachfolger wird sein bisheriger Stellvertreter Mehmet Görmez. (FA)

mardi, 16 novembre 2010

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

 

Sollte es das Ziel von Hillary Clintons State Department sein, die Bildung einer wachsenden Allianz von Staaten zu forcieren, die die US-Außenpolitik ablehnen, dann ist diesem Bemühen glänzender Erfolg beschieden. Das jüngste Beispiel ist Pakistan: Die USA machen Druck, weil Pakistan angeblich zu »sanft« mit den Taliban und al Qaida (oder was die USA so bezeichnen) umgeht. Der Effekt ist, dass Pakistan in eine engere Allianz mit China, dem einstigen Partner in der Zeit des Kalten Krieges, gedrängt wird, und zu den USA auf Abstand geht.

 

 

Im Im vergangenen Monat hat Obamas Präsidialamt dem US-Kongress einen Bericht übermittelt, in dem der pakistanischen Armee vorgeworfen wurde, sie vermeide »militärische Einsätze, die sie in direkten Konflikt mit den afghanischen Taliban oder mit al-Qaida-Kämpfern bringen würden«, dies sei eine »politische Entscheidung«. Der Druck, den die USA in den vergangenen Monaten erzeugt haben, um den Krieg in Afghanistan auf das benachbarte Kirgisistan und jetzt auch Pakistan auszuweiten, birgt die Gefahr, dass in der gesamten Region, die ohnehin zu den instabilsten und chaotischsten der ganzen Welt zählt, ein Krieg ausgelöst wird, bei dem zwei Atommächte, nämlich Indien und Pakistan, in eine direkte Konfrontation geraten könnten. Die Politiker in Washington scheinen nicht den geringsten Schimmer von der komplizierten, historisch gewachsenen Kluft zwischen den Stämmen und Ethnien in der Region zu haben. Anscheinend glauben sie, mit Bomben ließe sich alles lösen.

Wenn die Regierung in Pakistan nun verstärkt unter Druck gesetzt wird, so werden dadurch allem Anschein nach die militärischen und politischen Bindungen an Washington nicht etwa gefestigt, wie es noch unter dem Ex-Präsidenten, dem »Starken Mann« Musharraf in gewisser Weise der Fall gewesen war. Vielmehr wird Pakistans jetziger Präsident Asif Zardari China, dem geopolitischen Verbündeten aus der Zeit des Kalten Krieges, in die Arme getrieben.

Laut einem Bericht in Asian News International hat Zardari in Washington bei einem Treffen mit Zalmay Khalilzad, dem ehemaligen US-Botschafter in Pakistan und neokonservativen Kriegsfalken, die US-Regierung beschuldigt, sie »arrangiere« die Angriffe, die den Taliban in Pakistan angelastet werden, um einen Vorwand zu schaffen, unbemannte Drohnen auf pakistanisches Gebiet abzufeuern.* Angeblich habe Zardari gesagt, die CIA habe Verbindungen zu den pakistanischen Taliban, die als Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan oder TTP bekannt sind.

Obwohl das Militär in Pakistan von der Unterstützung der USA abhängig ist, herrscht Berichten zufolge im Land eine stark anti-amerikanische Stimmung, die weiter angeheizt wird, wenn Zivilisten bei amerikanischen Drohnenangriffen verletzt oder getötet werden. Auch über die wachsenden militärischen Kontakte Washingtons zu Pakistans Rivalen Indien herrscht große Empörung.
Angesichts der stärkeren Hinwendung Washingtons zu Indien setzt die pakistanische Elite im einflussreichen Sicherheits-Establishment verstärkt auf die Beziehungen zwischen Islamabad und Peking. Pakistan und China verbindet eine, wie oft gesagt wird, »wetterfeste« Freundschaft: eine Allianz aus der Zeit des Kalten Krieges, die aus der geografischen Lage und der beiderseitigen Antipathie gegen Indien erwachsen ist.

Anfang dieses Jahres hat China angekündigt, in Pakistan zwei Atomkraftwerke bauen zu wollen, eine strategische Antwort auf das Nuklearabkommen zwischen Indien und den USA. Dem Vernehmen nach verhandelt der staatliche chinesische Atomkonzern China National Nuclear Corporation zurzeit mit den pakistanischen Behörden über den Bau eines Atomkraftwerks mit einer Leistung von einem Gigawatt.

China hat Pakistan für die Zusammenarbeit bei der Bekämpfung potenzieller muslimischer Aufstände in der Unruheprovinz Xinjiang an der Grenze zu Pakistan und Afghanistan gewonnen. Außerdem baut China Dämme und Anlagen zur Erkundung von Edelmetallen. Von größter strategischer Bedeutung ist der von China betriebene Bau eines Tiefseehafens in Gwadar am Arabischen Meer in der pakistanischen Provinz Belutschistan, von dem aus Öl aus dem Nahen Osten über eine neue Pipeline in die chinesische Provinz Xinjiang transportiert werden soll. Washington betrachtet dies beinahe als kriegerische Handlung gegen die US-Kontrolle über den strategisch lebenswichtigen Ölfluss aus dem Nahen Osten nach China. Die Unruhen ethnischer Uiguren in Xinjiang im Juli 2009 trugen eindeutig die Handschrift amerikanischer NGOs und Washingtoner Geheimdienste, anscheinend sollte damit die wirtschaftliche Tragfähigkeit der Pipeline untergraben werden.

China dringt auch in Süd- und Zentralasien weiter vor, verlegt Pipelines über das Gebiet ehemaliger Sowjetrepubliken und erschließt die Kupferfelder in Afghanistan.
Nach Aussage des pensionierten indischen Diplomaten Gajendra Singh »zeigt Hintergrundmaterial in britischen Archiven, dass London sich ein schwaches Pakistan als Verbündeten im Süden Sowjetrusslands geschaffen hat, um die westlichen Ölfelder im Nahen Osten zu schützen, denn die sind noch immer der Preis, um den der Westen im Irak, im Iran, in Saudi-Arabien und anderen Gebieten am Golf, am Kaspischen Becken und in Zentralasien kämpft«.

jeudi, 11 novembre 2010

La nouvelle révolution turque

La nouvelle révolution turque

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com/

turkish-army.jpgEn moins de cent ans, la Turquie aura connu deux grandes révolutions, politiques et culturelles, la seconde cherchant à annuler les effets de la première. Telle est la thèse de Tancrède Josserand dans La nouvelle puissance turque, une brillante étude à la croisée de l’histoire des idées politiques, de la sociologie religieuse et de la géopolitique.

Turcophone avisé et jeune directeur de l’« Observatoire du monde turc et des relations euro-turques » de la Lettre Sentinel Analyses et Solutions, Tancrède Josserand apporte au lecteur francophone une vue nouvelle – et novatrice – sur l’évolution passionnante de la Turquie. Sorti fin août, l’ouvrage résonne néanmoins de l’actualité puisque, le 12 septembre 2010, les électeurs turcs ont entériné par plus de 58 % de oui pour une participation de 79 % le référendum révisant la Constitution de 1982. Ils ont ainsi décerné un large quitus au Premier ministre, Recep Tayip Erdogan, et à son parti, l’A.K.P. (Parti de la justice et du développement). Or cet indéniable succès électoral n’est pas le fruit du hasard, mais plutôt le résultat d’un long travail militant, culturel et métapolitique.

Hormis quelques banalités touristiques comme le détroit du Bosphore, la mosquée – cathédrale Sainte-Sophie ou le bazar d’Istanbul, on ne connaît guère la Turquie. Située en Asie Mineure, carrefour naturel de l’Europe, de l’Asie occidentale, du Proche-Orient et du Caucase, peu éloignée des gisements d’hydrocarbures, la Turquie n’est pas aussi homogène qu’elle souhaiterait l’être. Les ethnologues ont recensé quarante-sept minorités ethniques, religieuses et linguistiques parmi lesquelles les Lazes, les Tcherkesses, les Abkhazes, les Albanais, les Arabes, les Assyro-Chaldéens, vingt millions de Kurdes, douze à vingt millions d’Alévis, chiites dissidents qui « ne construisent pas de mosquée, ne font pas de prosélytisme et sont libres de consommer de l’alcool (p. 7) », soit « 32 à 45 millions d’individus sur les 74 millions d’habitants du pays (pp. 173 – 174) ». À l’exception des Grecs, des Arméniens et des Juifs dont l’existence est théoriquement reconnue par le traité de Lausanne de 1923, l’État turc ignore délibérément cette bigarrure humaine qui lui rappelle trop l’héritage ottoman.

De l’Empire ottoman à l’État national-républicain

Puissance se réclamant en partie de l’héritage de Byzance et, par ce truchement, de la Première Rome, l’Empire ottoman fut une théocratie multiculturaliste avant l’heure qui reposait sur l’institution du millet. « Les peuples soumis conservent leurs croyances, leurs institutions juridiques et sociales propres, en échange de l’allégeance au Sultan. Chaque religion forme un millet organisé comme une communauté légale sous la direction des porteurs du sacerdoce. Ce système ne permet pas seulement à l’État de contrôler les communautés à travers leurs institutions religieuses mais également au clergé des différents millet de s’appuyer sur le bras séculier pour réprimer les hérésies. Le système des millet permet à chacune des communautés de vivre ensemble tout en vivant à part (pp. 6 – 7). »

Ce « communautarisme institutionnel » n’est possible que du fait de l’originalité de l’islam turc. Principalement sunnite, il se divise en confréries hanafites ou soufies mystiques qui s’impliquent fortement dans la société et constituent un contre-pouvoir à l’omnipotence despotique du Sultan – Calife – Commandeur des croyants. La prégnance des confréries dans la société actuelle est largement examinée par Tancrède Josserand.

Longtemps gage d’une efficience politique, cette diversité organisée se transforme en faiblesse rédhibitoire au siècle des nationalités qui plonge l’Empire ottoman dans un déclin que ne parvient pas à freiner le mouvement jeune-turc. L’entrée en guerre d’Istanbul aux côtés des Empires centraux en 1914 marque son arrêt de mort. En 1920, par le traité de Sèvres, les Alliés et leurs affidés dépècent l’Empire. Le littoral anatolien est partagé entre les Grecs et les Italiens tandis qu’apparaissent les proto-États kurde et arménien.

Toutefois, la défaite ottomane attise le réveil national turc qui se cristallise autour d’un général aux yeux clairs et aux traits européens, né à Salonique, Mustapha Kemal. Celui-ci entreprend une véritable guerre de libération nationale. Sa victoire remet en cause l’architecture des traités de paix de la Grande Guerre, car elle contraint les Alliés à signer le traité de Lausanne de 1923 qui révise les clauses de Sèvres.

Conscient de la nécessité d’établir une identité turque qui se détourne du passé impérial ottoman, Kemal soutient une vision ethnique et linguistique de la turcité. Il déplace la capitale d’Istanbul au cœur du plateau anatolien à Ankara (Angora), encourage les recherches sur les civilisations hittite et sumérienne, ouvre une chaire universitaire indo-européenne dont le titulaire est le jeune Georges Dumézil et entreprend une vaste réforme civilisationnelle. Pour autant, « l’occidentalisation n’est pas conçue comme un processus d’acculturation visant à faire de la Turquie un pays européen. Au contraire, il s’agit pour Kemal de s’approprier la technique occidentale afin de pouvoir faire revivre l’âme turque d’avant l’islam (p. 11) ». Kemal invite historiens, géographes et ethnologues à déterminer correctement le foyer initial du peuple turc. « Au sud de la forêt sibérienne, les monts désolés de l’Altaï abritent le berceau originel des premiers Turcs. Ces espaces désertiques occupent une place à part dans l’imaginaire national. Ils sont indissociables de la légende de l’Ergenekon. Une louve au pelage gris-bleu aurait recueilli et nourri deux enfants, les derniers survivants d’une tribu turque disparue. Le symbole a été par la suite repris par la droite radicale et l’État turc lui-même. Il figure sur les armes de la “ République turque de Chypre ”  (p. 208). » Cet intérêt pour les mythes fondateurs sert l’unité des Turcs qui expulsent Grecs d’Ionie et d’autres populations allogènes.

Très vite, Ankara s’inspire des expériences communiste soviétique et fasciste italienne. « D’évidentes analogies existent entre les deux États où la nation est définie comme un tout organique, dirigé par un chef et un parti unique, expression de la volonté nationale (p. 14). » Mieux, « en 1937, les six principes ou six flèches du kémalisme (Alti Ock) (nationalisme, populisme, laïcité, étatisme, république, révolution) sont inscrits dans la Constitution (p. 14) ». Par ailleurs, l’impératif  politogénésiaque turc fait que « Kemal va user de barrières douanières prohibitives pour créer une bourgeoisie nationale (p. 12) ».

Mustapha Kemal prône l’émergence d’un homme nouveau turc « viril, vertueux, héroïque (p. 15) », d’où la nécessité de bouleverser en profondeur la société traditionnelle musulmane par une révolution quasi-permanente qui, au jour le jour, « entretient une tension permanente qui doit permettre l’application rapide des décisions arrêtées et la perpétuation des principes édictées (p. 15) ».

L’ambition laïque

Les mesures édictées par Kemal suscitent de violentes protestations qui dégénèrent, ici ou là, en révoltes ouvertes au nom de la défense de l’islam et avec l’implication étroite des confréries. La réponse étatique en est une répression implacable.

Les résistances musulmanes augmentent la méfiance de Kemal envers l’islam. Il veut la restreindre à la seule vie privée, voire à l’intimité du pratiquant. « L’islam, selon Kemal, est une parenthèse débilitante de l’histoire turque, la revanche des Arabes sur leur conquérant. Son message universaliste a dissous l’âme turque dans un magma informe. Preuve de cette volonté de ré-enracinement dans la plus longue mémoire, l’utilisation au début de la République du loup d’Asie centrale comme symbole officiel sur le timbre, les billets de banque (p. 12). »

Tancrède Josserand en vient à évoquer la laïcité turque qui ne correspond pas à la laïcité française. « L’État est laïc au sens où il n’est pas dominé par la religion. La religion est placée sous son contrôle. L’État organise, réglemente la pratique religieuse en restreignant au maximum sa visibilité dans la sphère publique (p. 139). » « La séparation entre l’État et la mosquée, poursuit l’auteur, est purement formelle puisque la vie religieuse s’organise au sein du ministère des Cultes (Dinayet). Outre le traitement des desservants, l’État kémaliste impose à l’islam ses propres orientations nationales (p. 18). » Ainsi, du temps d’Atatürk, l’appel à la prière du haut du minaret se fait en turc et non en arabe ! Le régime reprend la vieille tradition orientale « césaropapiste », chère aux empereurs byzantins… Il conçoit en outre la laïcité comme une religion civique et nationale fondée sur une base ethno-culturelle turque. Ce projet s’apparente-t-il à une religiosité pré-totalitaire ? Il y a pourtant un paradoxe : « l’islam est le creuset identitaire du nouvel État (p. 19) ».

Par conséquent, bien que pourchassées et interdites, les confréries survivent et attendent patiemment l’affaiblissement de l’État républicain. Cet affaiblissement tant survient après la Seconde Guerre mondiale quand les Alliés forcent la Turquie, restée neutre pendant le conflit, à renoncer à son monopartisme pré-totalitaire. Des bourgeois républicains créent le Parti démocrate et accèdent au pouvoir à la fin des années 1940. La réislamisation de la société est relancée de facto ! Dans le même temps, en raison de la Guerre froide et du voisinage soviétique, Ankara se place clairement dans le camp occidental, adhère à l’Alliance Atlantique et pose sa candidature à la C.E.E.

L’établissement d’une démocratie parlementaire avive les tensions politiques et sociales dans les décennies 1960 et 1970. Les campus deviennent le champ de bataille entre étudiants gauchistes, nationalistes et islamistes. Comme en Italie, la Turquie connaît des « années de plomb » et une « stratégie de la tension ». L’instabilité politique entraîne l’intervention de l’armée turque en 1960, en 1971 et en 1980 au nom des intérêts supérieurs de la nation qu’elle défend tout particulièrement.

L’armée, sentinelle de la nation

« La République turque, écrit Tancrède Josserand, est indissociablement liée à l’institution militaire (p. 195). » En effet, « les militaires en Turquie sont les gardiens de l’État et de sa continuité à travers les âges. Corps mystique et éclairé de la nation, l’armée se sent dépositaire d’une légitimité propre qui la place au-dessus des contingences des gouvernements élus. La référence au kémalisme est tout autant si ce n’est plus l’expression d’un lien de solidarité et d’intérêts de pouvoir d’une caste que celui de l’adhésion à un corpus idéologique intangible (p. 24) ». Cette prédominance provient paradoxalement de l’ère ottomane quand « la carrière militaire est une profession prestigieuse qui place le soldat au-dessus du reste de la société (p. 6) ».

Elle se renforce lors de la guerre de libération nationale de 1919 – 1923 et se concrétise avec le rôle quasi-démiurgique du général Kemal sur l’État dont la vocation est d’obtenir une nation turque. Or, afin de mener à bien cet objectif titanesque, le jeune État turc s’ouvre aux officiers si bien que l’armée est à l’origine de l’État lui-même maître-d’œuvre de la nation. De ce fait, « l’armée s’est construit une légitimité au dessus des partis en se statufiant gardienne de l’État (p. 201) ». Cette fonction lui permet par conséquent de mener une série de coups d’État jusqu’en 1997 sans pour autant s’occuper du quotidien. Les différents gouvernements turcs doivent appliquer les recommandations impératives du Conseil de sécurité nationale, l’émanation constitutionnelle de l’armée.

L’armée contrôle aussi de larges pans de l’économie grâce à l’O.Y.A.K. (Fonds de solidarité et d’aides mutuelles des forces armées). Bref, elle fait figure de sentinelle attentives et sourcilleuse de la vie politique turque en prenant après 1945 la posture du commandeur. En 1950, la victoire électorale du Parti démocrate montre l’ascension sociale de couches nouvelles issues de l’islam rural et provincial. Apparaît alors en réaction le Derin Devlet (l’État profond) qui « renvoie à l’existence d’une élite formée de hauts fonctionnaires, militaires, magistrats, membres des différents services de sécurité, et même universitaires pouvant agir à côté du gouvernement pour œuvrer à la conservation de la nation, de l’héritage kémaliste et d’intérêts de pouvoir bien compris… (p. 22) ». Il importe cependant de ne pas assimiler cet État profond aux armées secrètes de l’O.T.A.N. destinée à la lutte anti-communiste en dépit d’évidentes connexions (1).

Longtemps hégémonique, la place de l’armée s’amoindrit depuis une décennie sous les coups de butoir des islamistes et de la Commission européenne de Bruxelles. Elle a perdu de sa superbe; le Conseil de sécurité nationale n’a plus qu’un rôle consultatif. Dépit et résignation parcourent l’encadrement militaire. En 2002, l’armée autorisa le lancement du processus d’adhésion à l’U.E. avec le secret espoir de briser l’emprise de l’A.K.P. sur la population. À tort ! Désormais, « les cercles militaro-laïques opèrent un lien direct entre l’Union européenne, le projet d’islam modéré anglo-saxon et la globalisation (p. 205) », voyant l’instrumentalisation par les islamistes du choix européen.

Sur la défensive depuis la découverte et le démantèlement de divers complots dont ceux du réseau Ergenekon (2), l’armée semble hors-jeu et n’entend plus régir la politique turque. Cependant, certains de ses milieux continuent à résister à la « vague verte », malgré une infiltration islamiste indéniable. Les cénacles anti-musulmans de l’armée réfléchissent à une alternative géopolitique qui délaisserait l’orientation néo-ottomane et l’intégration européenne et pencheraient vers l’eurasisme qu’Alexandre Kadirbayev envisagerait comme « l’union de la steppe et de la forêt, des Turcs et des Slaves (p. 206) ». Il est étonnant que Tancrède Josserand n’évoque pas les thèses pantouraniennes naguère défendues par les Loups gris et le M.H.P. (Parti de l’action nationale). La vision d’un ensemble turcophone coordonné de la mer Adriatique à la Muraille de Chine serait-elle définitivement révolue ?

Il est en tout cas évident que l’armée perd ses repères habituels. « À partir des années 1980, la mondialisation associée à la libéralisation de l’économie, l’adhésion à l’Union européenne, ouvrent la Turquie. Les échelles se sont progressivement brouillées. Le cadre national se retrouve compressé entre le local et le global. À la différence de l’élite laïque aux rigides conceptions jacobines, les élites islamistes se sont coulées dans la nouvelle donne (p. 212). »

Islam radical et postmodernité

« L’A.K.P., explique Tancrède Josserand, c’est l’islam politique à l’heure de la postmodernité. Dans le discours postmoderne, aucune idéologie n’est plus légitime qu’une autre. Conséquence directe de la postmodernité, l’État se voit dépouillé de son droit à désigner une finalité universelle, c’est-à-dire à fixer un discours global et admis par tous. Dans le cas turc, cette remise en cause de l’idéologie d’État aboutit logiquement à la remise en cause de sa religion civique : la laïcité (p. 3). » Les dirigeants de l’A.K.P. ont pris conscience du phénomène et l’ont même accepté. Considérant que « la mondialisation excite l’expression d’identités culturelles sans bases politiques. En même temps, la perte de repères inhérente à la standardisation des modes de vie invite l’individu déraciné à s’accrocher à l’appartenance la plus proche. C’est le réflexe communautaire (pp. 174 – 175) », les islamistes utilisent la vogue du multiculturalisme dans la perspective d’assurer une hégémonie d’abord culturelle, puis politique. Puisque « la remise en cause des prérogatives régaliennes dans le cadre de l’intégration européenne favorise le retour à des conceptions régionalistes (p. 179) », les islamistes n’hésitent pas à favoriser le régionalisme. Or le problème porte sur l’acception du « régionalisme » qui présente un caractère artificiel et administratif plus que charnel, identitaire et enraciné. Sauf quelques exceptions notables, les mouvements régionalistes se revendiquent progressistes, altermondialistes et modernes.

Or, « chez les islamistes turcs la question du fédéralisme n’a jamais été taboue (p. 185) ». Tancrède Josserand cite un idéologue de l’A.K.P., Cemalettin Kaplan, qui déclare que « la laïcité d’Atatürk exclut naturellement les régions; nous sommes contre un État unitaire. Nous fonderons un État anatolien fédéral islamique (p. 185) ». Alors que « dans la droite ligne des principes hérités de la Révolution française, le kémalisme ne reconnaît que la nation et l’individu (p. 180) », les islamistes parient sur la résurgence des identités populaires et sur la réaffirmation de l’Oumma. « Hostile au nationalisme, considéré comme un produit d’exportation occidentale portant en germe les principes de la sécularisation, l’islam politique pose en premier lieu le lien religieux (p. 183). » Ainsi, « en favorisant le retour aux communautés, l’A.K.P. crée les conditions d’une société féodale sans arbitre et sans ordre politique, où les groupes divers imposent leurs codes et leur droit dans un tourbillon sans fin (p. 213) ». L’A.K.P. suivrait-il les travaux novateurs de Michel Maffesoli ? En Turquie, Dionysos s’est fait pour la circonstance mahométan !

Les néo-islamistes ont pris acte de la liquidification du monde ultra-moderne. Ils comprennent qu’« avec la mondialisation, les sociétés s’émancipent des États : les frontières administratives demeurent mais sont effacées ou ignorées. Émerge “ une volatilité identitaire ”. En fonction des enjeux, l’individu modifie à sa guise la hiérarchie de ses appartenances. Les attributs régaliens de l’État sont intégrés dans des structures transnationales, alors qu’à la base, ils sont éclatés en de multiples corps locaux ou intermédiaires (p. 172) ». Dorénavant, « le point de divergence majeur entre l’A.K.P. et l’islam politique classique repose sur la renonciation par les néo-islamistes à la religion d’État (p. 139) ». Les néo-islamistes rêvent de laïcité anglo-saxonne, étatsunienne en particulier, avec une ambiance saturée d’islam. « Très tôt, les néo-islamistes ont compris qu’il était impossible d’ignorer les effets de la mondialisation libérale. Bien au contraire, celle-ci couplée au processus d’adhésion à l’Union européenne est une arme redoutable contre le vieil État-nation kémaliste (p. 54). » Les néo-islamistes ont effectué leur mue culturelle et réussi leur métamorphose intellectuelle.

Une révolution conservatrice ou néo-libérale ?

Cette évolution résulte d’un long processus idéologique souvent parsemé d’échecs formateurs. L’auteur rappelle justement que « les membres fondateurs de l’A.K.P. se sont connus au milieu des années 1970 au sein de l’Union national des étudiants turcs (Milli Türk Talebe Birligi – M.T.T.B.), école des cadres de la droite radicale turque (p. 75) ». Ils affrontent en compagnie des étudiants nationalistes « idéalistes » les gauchistes. Leur activisme les fait remarquer par une véritable centrale de formation islamiste – le Milli Görus (Voie nationale) – qui est une école des cadres et un laboratoire d’idées de plusieurs générations militantes. Comme pour les nationalistes hindous en Inde qui bénéficient des entreprises intellectuelles du V.H.P. (Visva Hindu ParishadConseil mondial hindou) et du R.S.S. (Rashtriya Swayam Sevak SanghAssociation pour la défense des valeurs nationales), les néo-islamistes turcs disposent d’un solide appareil théorique qui permet l’articulation réfléchie du militantisme et de la métapolitique.

La gestation du néo-islamisme de l’A.K.P. fut longue et difficile. Elle date de l’échec gouvernemental du Refah Partisi (Parti de la prospérité) de Necmettin Erbakan. Le Refah se posait en alternative radicale et totale au kémalisme et s’inscrivait dans une veine protestataire qui, dans les décennies 1970 – 1980, se définissait comme tiers-mondiste, anti-impérialiste et identitaire. « Avec la charte dite de “ l’Ordre juste ” (Adil Düzen), le parti islamiste prône une troisième voie économique et sociale (p. 52) » et propose un développement autocentré ! Contre la menace d’extrême gauche, des convergences apparaissent entre islamistes et nationalistes d’où, à la suite du coup d’État de 1980, le désir des militaires d’opérer une synthèse islamo-nationaliste : « kémalisme et islam sont compatibles, la laïcité est nécessaire au développement d’un islam moderne et ami de la science (p. 26) ». Paraît à ce moment un « Rapport sur la culture nationale ». « Préparé sous les auspices d’intellectuels liés à la droite radicale, le document décline les trois piliers de la synthèse islamo-nationaliste : la famille, la mosquée, l’armée. […] Cette synthèse, opérée en rupture avec une partie des principes adoptés à partir de 1923, démontre que le kémalisme si cher à l’armée relève plus d’une logique de défense de l’idée d’État, que d’un corpus idéologique inamovible (pp. 26 – 27). »

En 1997, l’incapacité à gouverner d’Erbakan provoque une rupture entre l’aile traditionaliste qui va constituer le Saadet Partisi (Parti de la félicité) et l’aile modernisatrice, démocrate, libérale et pro-européenne, le futur A.K.P. Depuis, « à la différence des partis islamistes traditionnels, l’A.K.P. ne cherche pas à supprimer la laïcité pour instaurer la charia. Au contraire, les néo-islamistes turcs exigent une vraie laïcité et la fin de l’ingérence de l’État dans la sphère du privé (p. 69) ». Il ressort que « le conservatisme des néo-islamistes turcs n’est pas la réaction. On ne peut renouveler les formes révolues de gouvernement et effacer les grandes ruptures de l’Histoire comme si elles n’avaient jamais eu lieu. Ce conservatisme veut se rattacher au passé mais sans le restaurer. Le principe de conservation n’est pas synonyme d’inertie mais d’évolution de la continuité (p. 64) (3) ». Cette démarche ne se rapproche-t-elle pas des conceptions de la Révolution conservatrice allemande et européenne ?

Proche d’Erdogan et idéologue principal de l’A.K.P., Yulçin Akdogan, a inventé l’expression de « démocrate conservateur » et défend la vision d’« une démocratie organique se propageant de place en place dans l’ensemble du corps politique et social (p. 67) ». Cherchant à combler le fossé entre le peuple et les « élites », il estime – tel Arthur Mœller van den Bruck – que « ce qui fait la démocratie, ce n’est pas la forme de l’État mais la participation du peuple à l’État (p. 67). » Tancrède Josserand ajoute que « très habilement, les néo-islamistes ont compris que l’adéquation entre islam et démocratie prenait en défaut l’ensemble de l’édifice républicain (p. 61) ».

L’A.K.P. se considère comme une véritable force néo-conservatrice. Prenant en compte les données surgies de la mondialisation, il promeut le système capitaliste-libéral et des valeurs morales hostiles au matérialisme. « Dans la lignée d’Hayek et de Burke, l’A.K.P. conçoit les libertés traditionnelles comme partie inhérente de l’ordre social. L’État est là pour restaurer l’autorité et la vie sociale, non pour la liquider. La société est un parapluie sous lequel on peut s’abriter librement, à l’opposé de l’État moderne où l’homme en échange de cette protection fait le sacrifice de sa liberté (p. 71). » Militant en faveur de l’économie de marché, la liberté de conscience et la diversité des appartenances, l’A.K.P. cherche à « dégraisser l’État-Moloch en reconstruisant les mécanismes traditionnels d’entraide et de protection de la société musulmane (p. 72) ». Bref, il souhaite passer de l’État social à l’État de charité et soutient un État minimal. Leur vision correspond au conservatisme compassionnel de Bush fils et à la Big Society du Premier ministre tory David Cameron.

Un autre idéologue néo-islamiste, Mustafa Akyol, n’hésite pas à citer Joseph de Maistre. Ce « disciple de Leo Strauss critique le culte de la raison propre aux Lumières françaises. […] Akyol s’inscrit dans l’école du libéralisme conservateur, un libéralisme critique qui rejette la confusion entre liberté et révolution […]. Akyol n’est donc pas réactionnaire pour cette raison qu’il ignore pas ni ne rejette la donne du monde actuel. Le processus de modernisation auquel il adhère est un processus de modernisation conservatrice (p. 60) ». Verrait-on une modernisation musulmane réussie grâce à ces lecteurs singuliers d’Edmund Burke ? Cet intérêt des néo-islamistes pour Burke, l’un des principaux penseurs de la Contre-Révolution, est logique puisque l’ennemi kémaliste s’inspire, lui, du projet éclairé découlant des idées de 1789.

Il apparaît clairement une très nette convergence entre le néo-islamisme turc et la pensée libérale d’origine anglo-saxonne. Soulignant les nombreux liens noués entre l’A.K.P. et les cénacles néo-conservateurs étatsuniennes, Tancrède Josserand parle d’une « alliance des dévots » entre néo-islamistes et puritains d’outre-Atlantique. On retrouve sur les bords du Bosphore de vieilles recettes pratiquées par Margaret Thatcher et Ronald Reagan dans les années 1980. Il est par conséquent indéniable qu’il existe une « éthique islamique du capitalisme (p. 124) ». Les spécialistes vont même jusqu’à parler de « calvinistes musulmans » quand bien même les intellectuels islamistes dénoncent la Réforme protestante comme un facteur déterminant de sécularisation du monde.

L’A.K.P. n’est pas le F.I.S. (Front islamique du salut) algérien, les wahhabites saoudiens, voire les révolutionnaires néo-traditionalistes iraniens. L’auteur insiste sur le fait que « l’A.K.P. ne correspond pas aux canons habituels de l’islam politique. L’islam est compris comme un corpus moral de valeurs partagées régulateur de l’ordre social, non comme la raison d’être de l’État (p. 3) ». Son besoin vital de vaincre l’idéologie kémaliste persuada le parti néo-islamiste à accepter le processus d’intégration européenne et à se rapprocher du patronat. Le tournant libéral-conservateur des islamistes bouleversa le spectre politique turc : les néo-islamistes adoptent un centrisme ou un centre-droit alors qu’« en Turquie, le terme de centre renvoie à une idéologie officielle : le kémalisme. Cette vision du monde est gravée dans le mot d’ordre : État-nation, État laïc, État unitaire. Traditionnellement, les partis du centre-gauche est dans une moindre mesure de centre-droit alliés à l’appareil bureautico-militaire, en sont les légataires. À l’inverse, la périphérie désigne les secteurs de la population brimés par le système (Kurdes, islamistes, Alévis). Cette périphérie recouvre les différents mouvements islamistes issus du Milli Görus et en dernier ressort l’A.K.P. (pp. 35 – 36) ». Les succès de l’A.K.P. favoriseront-ils l’islamisation de la Modernité ou bien la mise en place d’une contre-modernité ? À moins que le monde ultra-moderne, fluide et liquide, domestique l’islamisme politique… « Loin de constituer un contre-feu au modernisme, estime Tancrède Josserand, l’élaboration d’une doctrine islamique du capitalisme ne fait qu’accélérer l’assimilation de l’islam dans un monde sécularisé, où il se réduit au final à un simple segment du marché (p. 133). »

En abordant la question kurde, Tancrède Josserand apporte des éléments inattendus et intéressants, bien loin des stéréotypes idiots des médias hexagonaux. « Les islamistes voient dans la question kurde un avatar du régime républicain que seule la restauration d’un lien spirituel fort est susceptible de résoudre (p. 173). » On y apprend l’existence du Hizbullah kurde qui lutte contre la guérilla du P.K.K. (Parti des travailleurs du Kurdistan) maoïste. Inspiré par le précédent de la révolution iranienne de 1979, son fondateur, Hüseyin Velioglu, « est à l’origine un transfuge de la droite radicale (p. 186) ». Ce parti de Dieu kurde, plus radical que l’A.K.P., envisage « l’alliance entre les étudiants, les paysans et les déshérités (p. 186) » et « rejette l’animalité végétative du monde moderne (p. 186) ». Sa structure de base, la mesjids (petite mosquée), ressemble aux nids de la Garde de Fer roumaine… Il n’empêche que le Kurdistan continue à poser un grave problème à la géopolitique turque.

Le jeu géopolitique

« La Turquie appartient hiérarchiquement à trois ensembles distincts :

— Le monde musulman au Sud.

— L’Eurasie à l’Est.

— L’Occident à l’Ouest (pp. 41 – 42). »

Notons que les visées panturquistes ou le songe pantouranien semblent totalement évacués des enjeux contemporains pour s’ancrer dans les chimères nostalgiques d’Enver Pacha.

Tout en misant sur l’U.E., les néo-islamistes démocrates-conservateurs réactivent la vieille influence ottomane dans le monde musulman à travers l’Organisation de la Conférence islamique (O.C.I.). Les étroits liens entre Ankara et Israël se distendent depuis qu’Erdogan aspire à devenir le porte-parole de la cause palestinienne auprès de la « Communauté internationale ». L’assaut israélien contre la flotille d’aide à Gaza a provoqué une grave crise diplomatique. Or rien ne dit que, dans les coulisses, Israéliens et islamistes turcs agissent de concert afin de rendre la figure d’Erdogan populaire auprès des masses arabes et de concurrencer celle d’Ahmadinejad.

On définit ce regain turc pour le monde arabe par le concept de « néo-ottomanisme » quand bien même la mémoire arabe garde les séquelles de la longue tutelle de la Sublime Porte. La politique étrangère – multidimensionnelle – de la Turquie est mise en pratique par l’ancien conseiller diplomatique d’Erdogan et actuel ministre des Affaires étrangères, Ahmet Davutuglu, qui pense au rang de son pays dans le monde. Estimant que « de Sarajevo à Bagdad en passant par Istanbul et Grozny, une même communion d’âme existe : l’islam et le souvenir de l’Empire ottoman (pp. 42) », Davutuglu façonne une sorte de diplomatie gaullienne : on conteste l’hégémonie des États-Unis tout en restant leur allié loyal. « Le fait que la Turquie puisse s’affranchir ponctuellement de la tutelle américaine n’est pas forcément nuisible. La Turquie est ainsi plus écoutée; elle devient à la fois une porte ouverte sur l’Ouest et un exemple à suivre (p. 43). »

Tancrède Josserand insiste sur « la convergence d’intérêts existant entre la mouvance islamiste turque et les États-Unis. L’A.K.P. demeure la formation la plus modérée à l’égard de Washington au sein de l’arc politique turc (p. 56) ». En visite aux États-Unis et soucieux d’apparaître en musulman responsable et atlantiste, Erdogan a discouru devant la Fondation Lehman Brothers, l’American Entreprise Institut, la Rand Corporation, l’Anti-Difamation League et l’American Jewish Congress. Une véritable alliance objective s’est réalisée puisque, « palliant l’absence d’un réel lobby turc, les groupes de pression pro-israéliens remplissent au Congrès ce rôle, surtout lorsqu’il s’agit de faire obstacle aux menées des instances communautaires arméniennes en vue de faire reconnaître le génocide de 1915. Cette appellation est réfutée tout par les Turcs que par les Juifs au nom du caractère unique de la Shoah (pp. 57 – 58) ».

Si la politique extérieure turque écarte le pantouranisme, elle n’hésite pas, en revanche, parallèlement à son atlantisme, à regarder aussi vers l’Est. « En Asie centrale, Davutoglu rappelle le rôle fondamental des populations turques. L’empire des steppes, la Horde d’Or, de la mer d’Aral à l’Anatolie est un point fixe de sa pensée. La Turquie a tout intérêt à revivifier cette vocation continentale et à se rapprocher du groupe de Shanghaï sous la baguette de la Chine et de la Russie (pp. 42 – 43). » La Turquie n’a pas encore dit son dernier mot (géo)politique…

La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal de Tancrède Josserand secoue les lieux communs les plus éculés et montre d’une lumière nouvelle les facettes de ce voisin de l’Europe. Regrettons cependant qu’il n’a pas été apporté à cet essai toute la rigueur scientifique attendue : nombreuses coquilles, absence de cartes, d’index et de bibliographie appropriés. Espérons donc qu’une prochaine édition rectifiera ces manques pour que ce livre de référence atteigne l’excellence.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : cf. Daniele Ganser, Les Armées secrètes de l’O.T.A.N. Réseaux Stay Behind, Gladio et terrorisme en Europe de l’Ouest, Éditions Demi-Lune, coll. « Résistances », 2007, 416 p.

2 : Berceau mythique des Turcs, Ergenekon désigne aussi une vaste conspiration anti-islamiste, anti-atlantiste et anti-européenne nouée entre des cadres de l’armée, de l’intelligentsia et de la pègre mise en lumière par la police et les journalistes.

3 : Souligné par nous.

• Tancrède Josserand, La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal, Éditions Ellipses, 2010, 219 p., 20 €.


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mercredi, 10 novembre 2010

Chinas geheimer Angriff auf Europa

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Chinas geheimer Angriff auf Europa

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Peking nimmt unaufhaltsam Einfluss auf die finanziell schwächsten europäischen Länder und sitzt somit bei jedem EU-Treffen quasi »unsichtbar« mit am Tisch.

 

»Die Chinesen sind in ihrem Handeln dem Westen zehn Jahre voraus«, so oder so ähnlich lauten zwischenzeitlich die Meinungen vieler Asienkenner. Diese Einschätzung ist nicht unbegründet, nehmen wir nur zwei von vielen Beispielen: In der Rohstoffsicherung sind die Chinesen Weltspitze und auch im Aufkauf von Farm- und Ackerland rund um den Globus bauen sie ihren Vorsprung uneinholbar aus. Kein Wunder also, dass auch der europäische Kontinent immer größere Begehrlichkeiten weckt. Wie aber soll man in diesen abgeschotteten europäischen »Block« eindringen, ohne großes Aufsehen zu erregen?

Auch hier haben sich die chinesischen Strategen einen mehr als genialen Plan ausgedacht: Man beginnt die schwächsten Glieder der EU-Kette zu demontieren und zwar so, dass dieser »Angriff« sogar noch freudig begrüßt wird.

Die Rede ist von den finanziell maroden südeuropäischen Staaten, die sich auch und trotz EU-Hilfen nur noch schwer über Wasser halten können: Griechenland, Spanien und Portugal.

Die chinesische Regierung steckt viel Geld in die Anleihen europäischer Krisenstaaten, die trotz großzügiger Finanzpakete nicht in Tritt kommen: Spanische Papiere wurden bereits von Peking aufgekauft und den Griechen hatte man vorsorglich versprochen, auch ihre Anleihen abzunehmen, wenn sie wieder auf dem freien Markt erhältlich sein sollten. Jetzt gibt es Gerüchte, dass das Reich der Mitte auch bei portugiesischen Bonds zuschlagen will.

Im Gegensatz zu den europäischen Staaten braucht sich China wegen seiner eigenen Liquidität keine Sorgen zu machen, denn es verfügt über Fremdwährungsvorräte von derzeit rund zwei Billionen Euro. Damit lässt sich einiges bewerkstelligen.

Die Asiaten waren überraschend ehrlich und kündigten ihren »Angriff« bereits im Sommer an. Der chinesische Premier Wen Jiabao sagte zu Kanzlerin Merkel: »Der europäische Markt wird auch weiterhin ein Schlüsselmarkt für chinesische Investments sein.« Was damit wirklich gemeint war, hat wohl keiner der deutschen Gesprächspartner verstanden. Man lächelte freundlich und bedankte sich.

Doch Chinas warmer Geldsegen ist kaltherzig und vor allem außenpolitisch motiviert: Mit der großzügigen Hilfe lässt sich bei den fast bankrotten europäischen Nehmerländern Stimmung in der EU für die eigenen Wünsche machen: Sei es für die Zuerkennung als Marktwirtschaft, für die Aufhebung des Waffenembargos, für das Stillschweigen in der Streitfrage des Yuan-Wechselkurses und in Fragen der Tolerierung der Menschenrechtsverletzungen. Durch die südeuropäischen »trojanischen Pferde« sitzt Peking nun bei jedem EU-Treffen quasi unsichtbar am Tisch. So kann man einen Keil in den EU-Block treiben und dessen größte Schwäche für eigene Zwecke nutzen: die mangelhafte Geschlossenheit.

Aber noch ein anderer Punkt darf nicht vergessen werden und ist weltpolitisch von höchster Brisanz: Das Ganze geht auf Kosten der Vereinigten Staaten, denn China schichtet immer mehr US-Anleihen in Südeuropa-Anleihen um. Zwar ist dies eine Diversifikation von einer unsicheren Anlageklasse in eine noch unsicherere, aber Peking scheint diesen Preis bezahlen zu wollen. Die USA werden immer uninteressanter, was uns eigentlich wachsam werden lassen müsste.

Doch Chinas durchdachte und hoch entwickelte Einflusspolitik scheinen europäische und deutsche Spitzenpolitiker bis zum heutigen Tage nicht zu durchschauen – wieder einmal.

 

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Quelle:

Handelsblatt vom 03.11.2010

samedi, 06 novembre 2010

Les robinets de matières premières se fermeront-ils?

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Michael WIESBERG :

 

Les robinets de matières premières se fermeront-ils ?

 

Bon nombre d’indices nous signalent que la Chine est actuellement sur la bonne voie pour détricoter les règles du jeu qui régissent le processus de globalisation, règles aujourd’hui toujours dominées par les Etats-Unis. Son objectif ? Reprendre à son compte le rôle de chef d’orchestre international pour promouvoir son propre modèle de capitalisme.

 

Les exemples les plus récents dans ce conflit : 1) la querelle concernant le dumping monétaire pratiqué par les Chinois et, plus récemment encore, 2) la politique chinoise de diminuer drastiquement l’exportation de minerais critiques (de terres rares) qui sont d’une importance vitale surtout pour l’industrie occidentale des hautes technologies. En ce domaine, la Chine détient une position dominante sur le marché parce qu’elle extrait 95% de ces minerais critiques (terres rares). La Chine limite depuis environ trois ans ses exportations, ce qui pousse les industries occidentales vers des goulots d’étranglement, comme on le ressent actuellement en Allemagne. D’après le site « Spiegel-Online », certaines firmes allemandes cessent de recevoir les métaux nécessaires pour la production de hautes technologies.

 

En menant cette politique de raréfaction de ses exportations de minerais critiques et de terres rares, la Chine vise manifestement à ce que la production de technologies clefs se fasse sur son territoire, comme le subodore, par exemple, le « New-York Times Online » (NYTO).

 

Constituer une « réserve stratégique »

 

Pour bon nombre d’observateurs, cette thèse du NYTO se révèle caduque et ne reflète que la plainte émise par des entreprises occidentales, d’avoir été discriminées en Chine au profit de firmes nationales chinoises. C’est là un argument assez faible contre l’hypothèse posée par le NYTO. Quoi qu’il en soit : la raison fondamentale qui explique cette polémique vient probablement du fait que la Chine cherche à se constituer une « réserve stratégique » qui lui permettrait de contrôler le marché des minerais critiques et des terres rares, pour lequel la concurrence est âpre et l’enjeu stratégique très important.

 

Les activités déployées par la Chine en Afrique confirment par ailleurs la thèse du NYTO, surtout dans une région ravagée par la guerre comme le Congo, où l’on exploite le manganèse, divers autres minerais, les sels potassiques et le phosphate. Tandis que l’UE aborde le problème congolais en termes de ratiocinations oiseuses et de thématiques « humanitaires », les Chinois, qui n’ont cure de tout cela, se sont depuis assez longtemps déjà assurés de droits d’exploitation. Il n’y a donc aucun doute : la Chine a reconnu le talon d’Achille de l’Occident et ce talon d’Achille, entre autres faiblesses, est le goulot d’étranglement que constitue l’obtention de minerais critiques et de terres rares pour les Etats occidentaux industrialisés. La Chine joue désormais ses atouts en ce domaine, en toute bonne conscience.

 

« Nous sommes menacés par plusieurs goulots d’étranglement »

 

Si les Chinois ne modifient pas leur politique actuelle, les Etats industrialisés de l’Occident, et donc aussi l’Allemagne, se retrouveront dans une situation fort désagréable.  « Nous sommes menacés de dangereux goulots d’étranglement », a expliqué le géologue Peter Buchholz, attaché à l’Institut Fédéral allemand des Sciences géographiques et des Matières premières (« Bundesanstalt für Geowissenschaften und Rohstoffe », BGR), sur le site « Spiegel-Online ». La fabrication d’un grand nombre de produits électroniques, dont les ordinateurs et les moniteurs informatiques, les accus, les téléphones portables, certains biens d’équipement civils et militaires, les semi-conducteurs, etc. pourrait s’interrompre, si aucun nouveau fournisseur de minerais critiques  ou de terres rares ne se présente dans des délais prévisibles.

 

Petit à petit, le gouvernement fédéral allemand se rend compte qu’il y a urgence à agir, mais autrement que dans le cadre conventionnel des « missions pour les droits de l’homme et la dignité de chaque personne humaine » qui structure depuis longtemps l’action gouvernementale de la RFA ; c’est ce que l’on peut lire, par exemple, dans un dépliant de Günter Nooke, qui fut jusqu’en mars 2010, le chargé d’affaires de la politique des droits de l’homme et de l’aide humanitaire du gouvernement fédéral allemand.

 

Nous dépendons pour près de 100% de la Chine

 

La Russie est la seule puissance capable de nous aider ; mais, en déployant des activités similaires aux Etats-Unis, en Australie ou en Afrique du Sud, nous pouvons espérer améliorer notre situation. Le plus grand espoir actuel, nous le plaçons dans la région de Kvanefjeld au Groenland, où l’on pourrait, paraît-il, extraire chaque année jusqu’à 100.000 tonnes de minerais critiques et/ou de terres rares. C’est en tous cas ce que nous laissent miroiter les pronostics les plus prometteurs. Cependant, l’extraction proprement dite ne pourrait démarrer au plus tôt qu’en 2015.

 

Mais que se passera-t-il d’ici là ? D’ici à ce que les espoirs placés dans le site groenlandais deviennent réalité ? Jusqu’à la fin de l’année 2011, nous explique Peter Buchholz, l’Allemagne restera à près de 100% dépendante du bon vouloir de la Chine en ce qui concerne les minerais critiques. Tout esprit rationnel peut déplorer que le gouvernement de la RFA ne réagit que maintenant, alors que ce processus de dépendance est à l’œuvre depuis assez longtemps. Evidemment, les « missions pour la dignité de chaque personne humaine » avait pris quasiment 100%  du temps de nos excellences politiciennes.

 

Michael WIESBERG.

(article tiré du site http://www.jungefreiheit.de/ - 25 octobre 2010).   

lundi, 01 novembre 2010

De ironie van de geschiedenis: Rusland "terug" naar Afghanistan

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De ironie van de geschiedenis: Rusland “terug” naar Afghanistan

Ex: http://yvespernet.wordpress.com

De geschiedenis heeft zo haar ironische verrassingen. Toen socialistisch Rusland, toen nog de Sovjetunie, Afghanistan binnenviel om daar het socialistische regime te ondersteunen, steunde de VSA de moedjahedien die de Russen bevochten. De CIA leverde wapens (de beruchte Stinger-raketten die Russische helikopters konden neerschieten), geld en training aan deze Afghaanse strijders en legde zo, nogmaals ironisch genoeg, de basis voor de Taliban en Al-Qaida vandaag de dag. Dit was de zogenaamde Operatie Cyclone. Deze oorlog zou uiteindelijk ook een grote rol spelen in het instorten van de Sovjetunie wegens de grote verliezen en de onuitzichtbare situatie. In Afghanistan wordt de terugtocht van de Sovjetunie uit hun land ook nog steeds jaarlijks gevierd. Nu dat de NAVO-aanvoerroutes steeds meer blootgesteld worden aan steeds effectievere aanvallen en de Pakistanen de belangrijke Khyber-pas sinds eind september hebben gesloten, zoeken de Amerikanen naar mogelijkheden om dit te compenseren.

De ironie van dit alles? De VSA gaan deze hulp zoeken bij de Russen. Rusland verkoopt militair materiaal aan de NAVO-leden in Afghanistan en aan het Afghaanse leger zelf. Tevens zouden zij piloten opleiden en het Russische grondgebied en luchtruim openzetten voor de bevoorrading van NAVO-troepen. Momenteel zou Rusland al vijf Mi-17 helikopters aan Polen verkocht hebben. Russisch onderminister van Buitenlandse Zaken, Aleksander Grushko, deelde ook al mee dat Afghaanse officieren momenteel in Rusland opgeleid worden. Anatoly Serdyukov, de Russische Minister van Defensie, melde ook dat de NAVO meerdere dozijnen Mi-17′s zou kopen of huren van Rusland. Zelf zouden er geen Russische troepen Afghanistan binnentrekken.

In ruil bouwt de VSA hun “anti-rakettenschild” (ARK), in de praktijk een radar-”afluister”systeem om Rusland te bespioneren, steeds verder af. Zo is dit ARK reeds geschrapt in Polen en Tsjechië. Ook zal Rusland geconsulteerd worden bij de opbouw van een eventueel alternatief voor dit ARK. Verder zou Rusland eisen van de NAVO dat zij de situatie in Georgië, waar o.a. Zuid-Ossetië nog steeds de facto onafhankelijk is onder Russische voogdij, officieel erkennen.

Ook is deze geopolitieke keuze van Rusland geen verrassing. Tegenover islamistisch fundamentalisme voert Rusland een containment-politiek, waar de VSA eerder een roll-back-politiek wensen te volgen. Voor Rusland is het het belangrijkste om het islamitisch fundamentalisme in Afghanistan en Pakistan te houden en ervoor te zorgen dat het zich niet meer naar het noorden, naar de onderbuik van Rusland, verplaatst. Dat daarbij de NAVO zich druk bezig houdt en grote materiële inspanningen moet leveren in Afghanistan, ten koste van hun aandacht naar Rusland toe, is nog eens goed meegenomen. Rusland heeft er dan ook alle belang bij om zowel de islamistische fundamentalisten als de NAVO-troepen met elkaar bezig te laten zijn in Afghanistan.

Volgende maand is er een NAVO-top in Lissabon waar deze gesprekken en besluiten officieel zouden meegedeeld worden. De Russische president, Dmitry Medvedev zou hier ook bij aanwezig zijn.

dimanche, 31 octobre 2010

L'UE doit raffermir ses relations avec les pays d'Asie

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L’UE doit raffermir ses relations avec les pays d’Asie

L’Asie est une région clef dans le monde qui peut permettre l’émancipation européenne !

Lors du sommet UE/Asie, il n’aurait pas fallu faire silence sur le problème des importations à bon marché en provenance d’Asie !

La rencontre entre pays asiatiques et pays de l’UE (ASEM), qui s’est terminée le 5 octobre à Bruxelles, aurait dû être mise à profit pour constituer des partenariats stratégiques, a affirmé le député européen de la FPÖ autrichienne, Andreas Mölzer. « L’Asie, et surtout la Chine, est une région du monde qui connaît une ascension économique remarquable et dont le poids géopolitique ne cesse de croître. Pour cette raison, il est indispensable d’avoir de bonnes relations, les plus étroites possibles, avec cette Asie en marche, surtout si l’UE cherche à s’émanciper de la tutelle américaine ». , explique Mölzer, membre de la Commission « affaires étrangères » du Parlement Européen.

Mölzer a également souligné que l’UE devait se présenter à ses éventuels partenaires asiatiques en étant pleinement consciente d’elle-même : « Au lieu de bidouiller des déclarations d’intention fumeuses, qui finiront inévitablement au tiroir des dossiers oubliés, il faut aborder les problèmes réels et y apporter des solutions ».

Pour Mölzer, il faut surtout résoudre le problème des importations à bon marché en provenance des pays asiatiques. « Si les relations étroites que nous envisageons avec les pays asiatiques valent la peine que l’on se mobilise pour elles, Bruxelles ne peut pas oublier les intérêts légitimes de l’Europe. Et parmi ces intérêts à ne pas escamoter, il y a la protection des emplois européens face aux salaires extrêmement bas pratiqués en Asie et qui équivalent à du dumping », a conclu Mölzer dans sa déclaration.

 

(source : http://www.andreas-mölzer.at/ ).

 

Neo-Ottoman Turkey: A Hostile Islamic Power

Neo-Ottoman Turkey: A Hostile Islamic Power

By Srdja Trifkovic

Ex: http://www.hellenesonline.com/

Map: Turkish sphere of influence 2050?

Turkey-2050.jpgThe fact that Turkey is no longer a U.S. “ally” is still strenuously denied in Washington; but we were reminded of the true score on March 9, when Saudi King Abdullah presented Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan (shown above with wife and friends) with the Wahhabist kingdom’s most prestigious prize for his “services to Islam” (from AltRight). Erdogan earned the King Faisal Prize for having “rendered outstanding service to Islam by defending the causes of the Islamic nation.”

Services to the Ummah – Turkey under Erdogan’s neo-Islamist AKP has rendered a host of other services to “the Islamic nation.” In August 2008 Ankara welcomed Mahmoud Ahmadinejad for a formal state visit, and last year it announced that it would not join any sanctions aimed at preventing Iran from acquiring nuclear weapons. In the same spirit the AKP government repeatedly played host to Sudan’s President Omer Hassan al-Bashir — a nasty piece of jihadist work if there ever was one — who stands accused of genocide against non-Muslims. Erdogan has barred Israel from annual military exercises on Turkey’s soil, but his government signed a military pact with Syria last October and has been conducting joint military exercises with the regime of Bashir al-Assad. Turkey’s strident apologia of Hamas is more vehement than anything coming out of Cairo or Amman. (Talking of terrorists, Erdogan has stated, repeatedly, “I do not want to see the word ‘Islam’ or ‘Islamist’ in connection with the word ‘terrorism’!”) simultaneous pressure to conform to Islam at home has gathered pace over the past seven years, and is now relentless. Turkish businessmen will tell you privately that sipping a glass of raki in public may hurt their chances of landing government contracts; but it helps if their wives and daughters wear the hijab.

Ankara’s continuing bid to join the European Union is running parallel with its openly neo-Ottoman policy of re-establishing an autonomous sphere of influence in the Balkans and in the former Soviet Central Asian republics. Turkey’s EU candidacy is still on the agenda, but the character of the issue has evolved since Erdogan’s AKP came to power in 2002.

When the government in Ankara started the process by signing an Association agreement with the EEC (as it was then) in 1963, its goal was to make Turkey more “European.” This had been the objective of subsequent attempts at Euro-integration by other neo-Kemalist governments prior to Erdogan’s election victory eight years ago, notably those of Turgut Ozal and Tansu Ciller in the 1990s. The secularists hoped to present Turkey’s “European vocation” as an attractive domestic alternative to the growing influence of political Islam, and at the same time to use the threat of Islamism as a means of obtaining political and economic concessions and specific timetables from Brussels. Erdogan and his personal friend and political ally Abdullah Gul, Turkey’s president, still want the membership, but their motives are vastly different. Far from seeking to make Turkey more European, they want to make Europe more Turkish — many German cities are well on the way — and more Islamic, thus reversing the setback of 1683 without firing a shot.

The neo-Ottoman strategy was clearly indicated by the appointment of Ahmet Davutoglu as foreign minister almost a year ago. As Erdogan’s long-term foreign policy advisor, he advocated diversifying Turkey’s geopolitical options by creating exclusively Turkish zones of influence in the Balkans, the Caucasus, Central Asia, and the Middle East… including links with Khaled al-Mashal of Hamas. On the day of his appointment in May Davutoglu asserted that Turkey’s influence in “its region” will continue to grow: Turkey had an “order-instituting role” in the Middle East, the Balkans and the Caucasus, he declared, quite apart from its links with the West. In his words, Turkish foreign policy has evolved from being “crisis-oriented” to being based on “vision”: “Turkey is no longer a country which only reacts to crises, but notices the crises before their emergence and intervenes in the crises effectively, and gives shape to the order of its surrounding region.” He openly asserted that Turkey had a “responsibility to help stability towards the countries and peoples of the regions which once had links with Turkey” — thus explicitly referring to the Ottoman era, in a manner unimaginable only a decade ago: “Beyond representing the 70 million people of Turkey, we have a historic debt to those lands where there are Turks or which was related to our land in the past. We have to repay this debt in the best way.”
This strategy is based on the assumption that growing Turkish clout in the old Ottoman lands — a region in which the EU has vital energy and political interests — may prompt President Sarkozy and Chancellor Merkel to drop their objections to Turkey’s EU membership. If on the other hand the EU insists on Turkey’s fulfillment of all 35 chapters of the acquis communautaire — which Turkey cannot and does not want to complete — then its huge autonomous sphere of influence in the old Ottoman domain can be developed into a major and potentially hostile counter-bloc to Brussels. Obama approved this strategy when he visited Ankara in April of last year, shortly after that notorious address to the Muslim world in Cairo.
Erdogan is no longer eager to minimize or deny his Islamic roots, but his old assurances to the contrary — long belied by his actions — are still being recycled in Washington, and treated as reality. This reflects the propensity of this ddministration, just like its predecessors, to cherish illusions about the nature and ambitions of our regional “allies,” such as Saudi Arabia and Pakistan.
The implicit assumption in Washington — that Turkey would remain “secular” and “pro-Western,” come what may — should have been reassessed already after the Army intervened to remove the previous pro-Islamic government in 1997. Since then the Army has been neutered, confirming the top brass old warning that “democratization” would mean Islamization. Dozens of generals and other senior ranks — traditionally the guardians of Ataturk’s legacy — are being called one by one for questioning in a government-instigated political trial. To the dismay of its small Westernized secular elite, Turkey has reasserted its Asian and Muslim character with a vengeance.
Neo-Ottomanism – Washington’s stubborn denial of Turkey’s political, cultural and social reality goes hand in hand with an ongoing Western attempt to rehabilitate the Ottoman Empire, and to present it as almost a precursor of Europe’s contemporary multiethnic, multicultural tolerance, diversity, etc, etc.
In reality, four salient features of the Ottoman state were institutionalized discrimination against non-Muslims, total personal insecurity of all its subjects, an unfriendly coexistence of its many races and creeds, and the absence of unifying state ideology. It was a sordid Hobbesian borderland with mosques.
An “Ottoman culture,” defined by Constantinople and largely limited to its walls, did eventually emerge through the reluctant mixing of Turkish, Greek, Slavic, Jewish and other Levantine lifestyles and practices, each at its worst. The mix was impermanent, unattractive, and unable to forge identities or to command loyalties.
The Roman Empire could survive a string of cruel, inept or insane emperors because its bureaucratic and military machines were well developed and capable of functioning even when there was confusion at the core. The Ottoman state lacked such mechanisms. Devoid of administrative flair, the Turks used the services of educated Greeks and Jews and awarded them certain privileges. Their safety and long-term status were nevertheless not guaranteed, as witnessed by the hanging of the Greek Orthodox Patriarch on Easter Day 1822.
The Ottoman Empire gave up the ghost right after World War I, but long before that it had little interesting to say, or do, at least measured against the enormous cultural melting pot it had inherited and the splendid opportunities of sitting between the East and West. Not even a prime location at the crossroads of the world could prompt creativity. The degeneracy of the ruling class, blended with Islam’s inherent tendency to the closing of the mind, proved insurmountable.
A century later the Turkish Republic is a populous, self-assertive nation-state of over 70 million. Ataturk hoped to impose a strictly secular concept of nationhood, but political Islam has reasserted itself. In any event the Kemalist dream of secularism had never penetrated beyond the military and a narrow stratum of the urban elite.
The near-impossible task facing Turkey’s Westernized intelligentsia before Erdogan had been to break away from the lure of irredentism abroad, and at home to reform Islam into a matter of personal choice separated from the State and distinct from the society. Now we know that it could not be done. The Kemalist edifice, uneasily perched atop the simmering Islamic volcano, is by now an empty shell.
A new “Turkish” policy is long overdue in Washington. Turkey is not an “indispensable ally,” as Paul Wolfowitz called her shortly before the war in Iraq, and as Obama repeated last April. It is no longer an ally at all. It may have been an ally in the darkest Cold War days, when it accommodated U.S. missiles aimed at Russia’s heartland. Today it is just another Islamic country, a regional power of considerable importance to be sure, with interests and aspirations that no longer coincide with those of the United States.
Both Turkey and the rest of the Middle East matter far less to American interests than we are led to believe, and it is high time to demythologize America’s special relationships throughout the region. Accepting that Mustafa Kemal’s legacy is undone is the long-overdue first step.

By Srdja Trifkovic
Saturday, 13 Mar 2010

 

lundi, 25 octobre 2010

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Elena BORGHI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Il quadro storico

Il periodo storico in cui visse ed operò Swami Vivekananda, la seconda metà dell’Ottocento, fu per l’India un momento particolarmente intenso.

Sul piano politico, caratterizzò questi anni il passaggio del governo dell’India dalla Compagnia delle Indie Orientali alla Corona inglese, che assunse il controllo diretto del Paese nel 1858, a seguito del Mutiny. Considerato da alcuni il primo scoppio del fervore nazionalista ed indipendentista, questo evento ebbe come principali conseguenze un’ondata terribile di violenze e la deriva ancor più autoritaria del governo inglese in India. Certamente, la rivolta fu indicativa del carattere predatorio della Compagnia e del livello di esasperazione da essa indotto nella popolazione, che cominciava a mal sopportare il peso del dominio inglese. Se, infatti, il regime coloniale trasformava gradualmente l’India in una nazione moderna – introducendo infrastrutture, reti di comunicazione, organizzazione della burocrazia e della società civile – d’altro canto il Paese pagava un prezzo altissimo in termini economici, sociali e politici.

Sul piano economico, l’India subì in questo periodo la devastazione causata dai legami sproporzionati tra centro e periferia dell’impero, che distrussero la preesistente economia, anche se, per quanto sfrenato, lo sfruttamento economico dell’India garantiva alla Gran Bretagna guadagni complessivamente piuttosto limitati. L’apporto fondamentale della colonia, infatti, rimase sempre la sua funzione di bacino potenzialmente inesauribile di reclutamento di uomini per l’esercito inglese in India, per l’apparato burocratico coloniale e per l’indentured labour, il sistema di “lavoro a contratto” che sostituì gli schiavi africani con migliaia di contadini e braccianti indiani, trasferiti nelle piantagioni e nelle miniere dei luoghi più disparati, legati a contratti che mascheravano uno stato di effettiva schiavitù.

Questi erano tra gli aspetti che, naturalmente, contribuivano a disintegrare il tessuto sociale indiano; vi si aggiungeva il portato del bagaglio ideologico introdotto dal regime coloniale, che cooperò enormemente alla cristallizzazione delle differenze castali e religiose e, dunque, alla frammentazione della società indiana in una miriade di blocchi contrapposti ed ostili, chiusi a livello endogamico, regolati da criteri gerarchici e definiti su basi di purezza razziale e rituale.


I movimenti di riforma

Di pari passo con il potere coloniale, cresceva lo scontento ed il senso di inadeguatezza di alcune categorie, perlopiù intellettuali di classe media ed estrazione urbana, figli di un’educazione di stampo occidentale, dalla cui iniziativa scaturì quel processo di rinnovamento sociale e culturale – nonché di ridefinizione identitaria, presa di coscienza nazionale e critica del regime coloniale – che investì l’India nel periodo in esame.

Si trattò di un periodo di fermento culturale e di tentativi di riforma sociale e religiosa, volti a ripensare le pratiche considerate più aberranti della tradizione hindu (come la sati, l’immolazione delle vedove sulla pira del marito, o il matrimonio infantile), a diffondere un’istruzione di tipo moderno, a ridiscutere la condizione femminile. Motore e scopo ultimo di questi movimenti era l’acquisizione di strumenti atti ad affrontare «l’esibita superiorità dell’Occidente cristiano nei confronti della cultura e delle religioni indiane»1, come dimostrarono, in particolare, le misure a favore dell’istruzione femminile. Auspicate dai riformatori per motivi che poco avevano a che fare con il reale desiderio di apportare miglioramenti alla generale condizione delle donne, queste misure si rivelarono, in realtà, necessarie ad altri scopi: confutare le teorie europee – secondo le quali la discriminazione cui erano sottoposte le donne in India e la loro condizione erano immagine dell’arretratezza del Paese in generale –, dando prova dell’adeguatezza dell’India all’autogoverno; creare “nuove donne indiane” capaci di essere mogli e madri più adatte alle necessità (pratiche, ma anche identitarie e d’immagine) della classe emergente, e di socializzarne i valori e le aspirazioni, pur entro i confini della tradizione patriarcale, che restava per i riformatori un punto fermo e indiscutibile.2

In ambito religioso, la riforma si concretizzò nelle figure di alcuni pensatori e nella fondazione di istituzioni, volte a rivedere le più grandi tradizioni indiane – hindu e musulmana – alla luce di uno spirito più moderno e razionale.

È tra questi riformatori che si colloca Vivekananda, al secolo Narendranath Datta, nato in quella Calcutta all’epoca centro della vita politica e culturale del Paese, e in una famiglia di scienziati e pensatori illustri.

Fin da bambino profondamente interessato ai temi dell’Hinduismo e della meditazione e dotato di un carisma e di una passione per la ricerca della verità inusuali per la sua età, Narendranath ricevette un’istruzione di stampo occidentale, appassionandosi in particolare alla filosofia, e coltivando allo stesso tempo lo studio della poesia sanscrita, dei testi sacri e degli scritti del riformatore suo contemporaneo Rammohan Ray.

Razionale, dedito al ragionamento logico e sprezzante dei dogmi religiosi tradizionali, Narendranath si avvicinò al Brahma Samaj, l’istituzione fondata a Calcutta nel 1828 da Rammohan Ray al fine di operare una trasformazione dello Hinduismo in senso moderno, depurando la religione dalle pratiche più barbare ed introducendo nello studio della stessa il principio di ragione. Narendranath, affascinato dalle arringhe dei riformatori che facevano parte del movimento, sembrava destinato ad una carriera del tutto simile, borghese e socialmente impegnata, fino a quando un incontro introdusse nel suo percorso un cambiamento di rotta.


Da Narendranath a Vivekananda

Era il 1880, quando Narendranath incontrò per la prima volta Ramakrishna, il sacerdote officiante di un tempio situato a Dakshineshwar, un sobborgo di Calcutta, e dedicato ad una forma del dio Shiva, che veniva lì adorato insieme alla dea Kali. Brahmano di estrazione contadina, con un’istruzione limitata cui sopperivano buon senso, mitezza e profonda devozione, costui era un rinunciante di eccezionale spessore, un rappresentante della corrente mistica della bhakti, la “devozione”, e un punto di riferimento per gli intellettuali bengalesi, affascinati dalla schiettezza dei suoi insegnamenti.

Quell’incontro provocò un imponente cambiamento nella vita del giovane Narendranath, che in pochi anni, durante i quali proseguì nel tentativo di conciliare il materialismo delle scienze occidentali e lo spiritualismo in cui lo precipitavano i momenti a Dakshineshwar, divenne il discepolo prediletto di Ramakrishna. Come il suo Maestro, divenne un Advaitavedantin, un sostenitore dell’indirizzo dottrinale del non-dualismo, che predicava l’unità tra Sé individuale e Assoluto. Da questi insegnamenti Narendranath avrebbe in seguito derivato la convinzione della divinità degli esseri umani, dunque la considerazione di tutte le forme dell’esistenza quali manifestazioni dello spirito divino.

Nel 1886 Ramakrishna, dopo aver iniziato i discepoli alla loro nuova condizione di sanyasin3, indicò Narendranath come loro guida. Fu così che egli divenne Vivekananda, “colui che ha la beatitudine della discriminazione spirituale”. Due anni più tardi Vivekananda cominciò la sua vita di parivrajaka, “monaco errante”, partendo per un pellegrinaggio che durò anni, un viaggio solitario compiuto a piedi sulle strade polverose dell’India, dallo Himalaya fino a Kanyakumari. Questa esperienza fornì a Vivekananda una conoscenza profonda del Paese, quale non aveva mai posseduto. Alla fine del viaggio, quando finalmente raggiunse Kanyakumari, Vivekananda rifletté su tutto quello che aveva visto: «Un Paese dove milioni di persone vivono dei fiori della pianta mohua, e un milione o due di sadhu e circa cento milioni di brahmani succhiano il sangue di queste persone, senza fare il minimo sforzo per migliorare la loro condizione, è un Paese o l’inferno? È quella una religione, o la danza del diavolo?»4

Partito con l’obiettivo di portare unità tra le varie sette e confessioni indiane, radunandole sotto l’ombrello del messaggio vedantico, Vivekananda comprese che al suo Paese servivano istruzione e cibo, più che insegnamenti religiosi. Ripensò a quel che aveva sentito dire alcuni mesi prima, circa l’organizzazione a Chicago del World’s Parliament of Religions, un congresso che avrebbe ospitato rappresentanti di ogni religione del mondo; Vivekananda decise che si sarebbe recato negli Stati Uniti, per predicare il messaggio vedantico e chiedere in cambio il sostegno economico necessario a fondare in India istituzioni educative e caritative per le classi più svantaggiate.

Pochi mesi più tardi ebbe inizio la sua missione in Occidente, che lo vide tenere innumerevoli conferenze e radunare intorno a sé molti sostenitori.


Un pensiero moderno e rivoluzionario

Attualizzando gli aspetti religioso-filosofici della dottrina vedantica, all’interno di un pensiero in cui la speculazione teorica e dogmatica veniva costantemente riportata alle necessità pratiche del suo tempo e del suo luogo – percepite come urgenti ed imprescindibili –, Vivekananda divenne l’esempio di una nuova tipologia di riformatore, capace di coniugare gli insegnamenti ancestrali del pensiero vedantico con l’attualità dell’India più comune. Questa narrazione, dunque – a differenza di quelle costruite da altri riformatori, che auspicavano un ripensamento, quando non un distacco, della “tradizione” sociale e religiosa, sentita come ostacolo al “progresso” –, non presupponeva una revisione in chiave filo-occidentale del bagaglio culturale e religioso indiano, bensì glorificava quel passato, proponendolo come la chiave che avrebbe aperto all’India le porte della giustizia sociale, dell’istruzione, dello sviluppo materiale e spirituale.

«La società più grande è quella in cui le verità più alte diventano concrete»5, sosteneva Vivekananda, facendo riferimento alla necessità di costruire una società strutturata in modo da permettere la realizzazione della divinità umana. Da questa convinzione di base, derivata dalla filosofia vedantica, egli ricavò il suo progetto di società utopica, che si sarebbe retta sul pilastro dell’uguaglianza tra gli uomini. Il fatto che egli ritenesse necessarie all’avverarsi di questa idea da un lato la diffusione dell’istruzione – che doveva diventare di massa, affinché gli strati più svantaggiati acquisissero forza e coscienza del proprio valore – e, dall’altro, la soppressione di ogni privilegio – politico, economico o religioso che fosse – dimostra il carattere rivoluzionario del pensiero di Vivekananda. Diversamente da molti suoi contemporanei, egli non era disposto a prevedere risultati parziali; eppure, l’imponenza di questo progetto e il suo carattere utopico non compromettevano in alcun modo la fede di Vivekananda nella sua realizzabilità.

«Pane! Pane! Non credo in un Dio che non riesce a darmi il pane in questo mondo, mentre mi promette la beatitudine eterna nei cieli! Bah! L’India deve essere affrancata, i poveri devono essere nutriti, l’istruzione deve essere diffusa, e la piaga del potere sacerdotale deve essere eliminata».6

Anche nel suo rapporto ideale con l’Occidente Vivekananda differiva dal resto dei riformatori: non prevedendo né una forma di riverente assimilazione ai suoi valori, né il rifiuto astioso di essi, egli auspicava una sorta di collaborazione e di mutuo scambio di eccellenze: «Direi che la combinazione della mente greca, rappresentata dall’energia dell’Europa, e della spiritualità hindu darebbe origine a una società ideale in India. […] L’India deve imparare dall’Europa la conquista del mondo esteriore, e l’Europa deve imparare dall’India la conquista del mondo interiore. Allora non ci saranno hindu ed europei: ci sarà un’umanità ideale, che ha conquistato entrambi i mondi, quello esterno e quello interno. Noi abbiamo sviluppato una parte dell’umanità, e loro un’altra. È l’unione delle due ciò cui dobbiamo aspirare».7

Ancora, la modernità del pensiero di Vivekananda si espresse nella sua considerazione del gesto filantropico che, come in ambito cristiano, fino a quel momento era stato reputato dal sistema hindu tradizionale una questione privata tra donatore e beneficiario. Egli fu il primo a proporre un’etica del seva (il “servizio”) istituzionalizzata – così come è divenuta la filantropia, un po’ ovunque nel mondo, in tempi recenti –, con lo scopo di garantire una ripartizione equa e il più possibile estesa di azioni di solidarietà nei confronti di persone bisognose: “Fare del bene agli altri è l’unica grande religione universale”8, sosteneva Vivekananda, accordando alla pratica del seva un significato che andava ben oltre la semplice azione filantropica. Teorizzò, inoltre, che la figura sociale più autorevole in India – e dunque più adatta a diffondere un pensiero in certo modo rivoluzionario – era quella del sanyasin. Mentre i suoi contemporanei proponevano modelli borghesi, di uomini d’alta casta colti e mondani, o figure eroiche della tradizione storica e religiosa indiana, Vivekananda individuava nel monaco, nell’asceta e nel rinunciante la sede della saggezza e della credibilità presso il popolo; era a queste figure, estranee ai meccanismi del potere, all’avidità e al perseguimento dell’interesse personale, che Vivekananda avrebbe affidato il compito di diffondere il messaggio, dimostrando ancora una volta l’intransigenza che guidava il suo pensiero.

Su questi pilastri poggiava la Ramakrishna Mission, istituita da Vivekananda a fine secolo quale organizzazione impegnata in ambito sociale e strettamente connessa alla vita del monastero dell’Ordine di Ramakrishna, i cui monaci fondevano nella propria esperienza quotidiana lavoro sociale e pratica spirituale – due aspetti che, completandosi a vicenda, fungevano l’uno da motore dell’altro. Intervenendo inizialmente soprattutto in ambito educativo e nella lotta alla povertà, la Ramakrishna Mission cominciò così in quegli anni il suo servizio all’India, che Vivekananda descriveva in termini angosciati:

«Fiumi ampi e profondi, gonfi e impetuosi, affascinanti giardini sulle rive del fiume, da fare invidia al celestiale Nandana-Kanana; tra questi meravigliosi giardini si ergono, svettanti verso il cielo, superbi palazzi di marmo, decorati da preziose finiture; ai lati, davanti e dietro, agglomerati di baracche, con muri di fango sgretolati e tetti sconnessi […]; figure emaciate si aggirano qua e là coperte di stracci, con i volti segnati dai solchi profondi di una disperazione e di una povertà vecchie di secoli […]; questa è l’India dei nostri giorni!

[…] Devastazione causata da peste e colera; malaria che consuma le forze del Paese; morte per fame come condizione naturale; carestie mortali che spesso danzano il loro macabro ballo; un kurukshetra di malattie e miseria, un enorme campo per le cremazioni disseminato dalle ossa della speranza perduta.

[…] Un agglomerato di trecento milioni di anime, solo apparentemente umane, gettate fuori dalla vita dall’oppressione della loro stessa gente e delle nazioni straniere, dall’oppressione di coloro che professano la loro stessa religione e di coloro che predicano altre fedi; pazienti nella fatica e nella sofferenza e privati di ogni iniziativa, come schiavi, senza alcuna speranza, senza passato, senza futuro, desiderosi solo di mantenersi in vita in qualche modo, per quanto precario; di natura malinconica, come si confà agli schiavi, per i quali la prosperità dei loro simili è insopportabile. […] Trecento milioni di anime come queste brulicano sul corpo dell’India come altrettanti vermi su una carcassa marcia e puzzolente. Questo è il quadro che si presenta agli occhi dei funzionari inglesi».9

Costituito inizialmente da appena una dozzina di monaci, nei cento e più anni che ci separano dalla sua fondazione l’Ordine di Ramakrishna è oggi un movimento transnazionale di proporzioni enormi, simbolo di pace ed ecumenismo, fondato sulla pratica del servizio disinteressato come metodo per la realizzazione del divino e caratterizzato da un approccio razionale alla religione – considerata non un apparato ritualistico ma una scienza dell’essere e del divenire –, da una tradizione colta e dall’efficacia dei suoi interventi in campo sociale.

Definiscono Ramakrishna Mission e Ramakrishna Math (rispettivamente la componente pratica del movimento e l’organizzazione monastica) le tre caratteristiche che sono state segni distintivi di Vivekananda e del suo operato e che, risultando a tutt’oggi innovative, dimostrano la statura di un riformatore illuminato, rivoluzionario per il tempo e il luogo in cui visse: la modernità – che si esprime nell’attualizzazione dei principi vedantici, e nel collocare nel presente il pensiero guida dell’operato di queste istituzioni; l’universalità – data dal rivolgersi non ad un unico Paese o ad uno specifico gruppo di persone, ma all’umanità intera; e la concretezza – che risiede nel porre i principi teorici e spirituali a servizio del miglioramento delle quotidiane condizioni di vita delle persone.


* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)


1 Torri, M., Storia dell’India, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 453.

2 Jayawardena, K., Feminism and Nationalism in the Third World, Zed Books, Londra 1986.

3 Asceta errabondo, che ha rinunciato ad ogni piacere mondano e ad ogni forma di possesso materiale ed umano, per dedicarsi unicamente al conseguimento della liberazione, il moksha. Il monaco rinunciante trascorre la propria vita in solitario cammino, elemosinando il cibo, coltivando il silenzio e il raccoglimento, inaccessibile ad ogni desiderio e ad ogni umana debolezza. La contemplazione dello Spirito supremo, il distacco, la disciplina e la meditazione profonda sono i suoi compiti, che lo preparano ad abbandonare per sempre la dimora terrena ed il corpo mortale, liberandolo dal ciclo di rinascita e rimorte.

4 The complete Works of Swami Vivekananda, Mayavati Memorial Editing, Advaita Ashrama, Calutta 1992-95, vol. VI, p. 254.

5 Ibid., vol. II, p. 85.

6 Ibid., vol. IV, p. 368.

7 Ibid., vol. V, p. 216.

8 Ibid., vol. IV, p. 403.

9 Ibid., vol. V, p. 441-442.

dimanche, 24 octobre 2010

L'imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

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L’imputato per la strage di Mumbai lavorava per il governo USA

di Kurt Nimmo

Fonte: megachip [scheda fonte] 

La settimana scorsa i funzionari USA dichiaravano che c’era ancora una minaccia proveniente da indimostrati terroristi in Europa, mentre la polizia di New York conduceva un’esercitazione che simulava un attacco “stile Mumbai” contro i civili nel distretto finanziario di Manhattan. Il capo dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato ha esposto ai giornalisti a Londra un allarme per i viaggiatori emanato il 3 ottobre che consigliava a chi viaggiava in Europa che un "assalto in stile Mumbai" su obiettivi civili, poteva essere imminente, o forse no.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

abc_floydnews_playSabato scorso, funzionari federali hanno ammesso che l’uomo d'affari statunitense David Coleman Headley, che si presume abbia confessato di essere un reclutatore di terroristi in relazione agli attentati di Mumbai del 2008, lavorava come informatore della DEA, mentre si esercitava con i terroristi in Pakistan.

«I funzionari federali, che parlavano solo in sottofondo per la delicatezza del caso Headley, hanno dichiarato inoltre di sospettare un legame tra Headley e le figure di al-Qa‛ida le cui attività hanno suscitato recenti minacce terroristiche contro l'Europa», riferisce Pro Publica, un’agenzia on line non-profit indipendente che produce giornalismo investigativo.

Venerdì scorso, Pro Publica ha riferito che l'FBI era stata messa in guardia in merito ai legami terroristici di Headley ben tre anni prima che gli attentati di Mumbai avessero luogo.

Headley, tuttavia, non è stato arrestato fino a 11 mesi dopo l'attacco. «Dopo che Headley è stato arrestato nel 2005 per una lite domestica a New York, la moglie ha raccontato agli investigatori federali il suo duraturo coinvolgimento con il gruppo terroristico Lashkar-i-Taiba e i suoi estensivi programmi di formazione nei campi pakistani», scrive Sebastian Rotella. «Ha anche loro riferito che si era vantato di essere un informatore pagato dagli Stati Uniti, mentre era in corso la formazione terroristica».

Lashkar-i-Taiba è stata programmata per operazioni occulte. Si tratta di una creazione dell'Inter-Services Intelligence, o ISI, i servizi pakistani, e «riceve considerevoli risorse finanziarie e materiali nonché altre forme di assistenza da parte del governo del Pakistan, indirizzate in primo luogo attraverso l'ISI. L'ISI è la principale fonte di finanziamento di Lashkar-i-Taiba. E anche l'Arabia Saudita alimenta la provvista dei fondi», secondo il South Asia Terrorism Portal.

Lashkar-e-Taiba ha inoltre avuto un ruolo nella campagna bosniaca organizzata dall’ISI contro i serbi, che era diretta dalla CIA e dai servizi segreti britannici.

Lashkar è l'ala militare del Markaz Dawat wal Irshad, collegato all’Ahl-e Hadith pakistano, un gruppo con stretti legami di affiliazione ai wahabiti sauditi. Markaz è stata fondata nel 1986 da due professori universitari pakistani assistiti da Abdullah Azzam, uno stretto collaboratore di Osama bin Laden. Azzam è stato "arruolato" da parte della CIA per guidare gruppi islamici a Peshawar e poi come intermediario tra i Mujāhidīn afghani.

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La notizia della connessione di Headley all’intelligence non è una novità.

Nel 2009 è stato riferito che egli poteva «essere stato un agente sotto copertura degli Stati Uniti diventato una canaglia», secondo il «Times of India».

Durante le sue operazioni e contatti in India, Headley si è presentato spesso come un agente della CIA.

David Headley è stato menzionato in un rapporto sul terrorismo interno redatto da Tom Kean, Lee Hamilton, e dall’istituto bipartisan con sede a Washington National Security Preparedness Group.

Kean e Hamilton si erano a suo tempo sforzati di concentrare la colpa per gli attentati dell'11 settembre 2001 a carico di musulmani cavernicoli. «La leadership dei gruppi islamici radicali, tra cui al-Qa‛ida, si è americanizzata attraverso figure come il chierico radicale Anwar al-Awlaki, cresciuto in New Mexico, e David Headley da Chicago, che ha contribuito a pianificare gli attacchi terroristici a Mumbai del 2008», ha riferito il «New York Post» in occasione del nono anniversario dell'11 settembre.

In effetti il terrorismo è diventato "americanizzato", perché in realtà gran parte del terrorismo islamico è una creazione dell'intelligence USA, britannica e israeliana, con l'aiuto di partner gregari come la Germania.

Nel 1997, Headley, alias Daood Sayed Gilani, un condannato per traffico di droga, è stato strappato via dalla prigione dalla DEA e spedito in Pakistan per condurre operazioni di sorveglianza sotto copertura per conto della Drug Enforcement Administration. Nel 2002 e tre volte nel 2003, ha frequentato campi di addestramento in Pakistan di Lashkar-e-Taiba, l’organizzazione creata e finanziata dall’ISI e dai sauditi.

L'FBI era ben consapevole di tutto ciò. Secondo il rapporto di Pro Publica, non solo la moglie di Headley ha raccontato all'FBI che suo marito era un militante attivo di Lashkar-e-Taiba, ma anche che si era a lungo esercitato nei suoi campi pakistani e aveva anche fatto acquisti per visori notturni e altri apparecchi.

Ancora una volta ci verrà detto che tutto questo è stato un «fallimento dell'intelligence» e che Headley ha violato i patti per essere stato radicalizzato da parte di terroristi pakistani.

A questo punto, però, non ci viene detto più di nulla. I grandi media, con la notevole eccezione del «New York Times» e dell'Associated Press, non riportano questa storia. È appena un puntino sullo schermo radar dei grandi organi di comunicazione. La minaccia terroristica europea, ovviamente fraudolenta, ha ricevuto molta più copertura, anche se non vi è assolutamente alcuna prova che dei terroristi avessero intenzione di fare alcunché in Europa o altrove, men che meno negli Stati Uniti.

Di quante altre prove abbiamo bisogno? David Headley stava ovviamente lavorando per il governo degli Stati Uniti ed è stato "radicalizzato" e formato da un gruppo che i documenti indicano come CIA-ISI con collegamenti con i sauditi e il wahhabismo.

La CIA non tenta più nemmeno di coprire le proprie tracce, quando manovra il terrorismo "falso" e i gruppi terroristici. Cinque minuti con un motore di ricerca in internet bastano a produrre informazioni sufficienti a dimostrare il fatto che i governi ingegnerizzano il terrorismo e i terroristi.

I governi usano abitualmente il terrore sintetico per mandare avanti i loro programmi in agenda. È tutto alla luce del sole e ci si presenta di fronte. Ma non aspettatevi che il «New York Times» o la CNN colleghino i puntini. Sottolineare l'ovvio, si sa, è un lavoro per teorici della cospirazione…

 

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip.

Fonte: http://www.infowars.com/mumbai-terror-suspect-worked-for-....

samedi, 23 octobre 2010

EU braucht engere Beziehungen zu asiatischen Mächten

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EU braucht engere Beziehungen zu asiatischen Mächten

 

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Asien ist Schlüsselregion zur Emanzipation Europas von den USA – Bei EU-Asien-Gipfel darf das Problem asiatischer Billigimporte nicht ausgeklammert werden

Das heute in Brüssel zu Ende gehende EU-Asien-Treffen (ASEM) müsse zur Bildung strategischer Partnerschaften genutzt werden, forderte der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer. „Asien, insbesondere China, ist eine Region, die wirtschaftlich auf der Überholspur ist und deren geopolitisches Gewicht stetig zunimmt. Daher sind gute und enge Beziehungen zu Asien unerläßlich, wenn sie die Europäische Union von den USA emanzipieren will“, so Mölzer, der auch Mitglied des außenpolitischen Ausschusses des Europäischen Parlaments ist.

Dabei wies der freiheitliche EU-Mandatar darauf hin, daß die Europäische Union gegenüber ihren asiatischen Partnern auch selbstbewußt auftreten müsse. „Anstatt an schwammigen Absichtserklärungen zu arbeiten, die recht bald in einer Schublade landen, müssen bestehende Probleme angesprochen und einer Lösung zugeführt werden“, erklärte Mölzer.

Insbesondere müsse, so der freiheitliche Europa-Abgeordnete, das Problem der Billigimporte aus Asien gelöst werden. „So erstrebenswert enge Beziehungen zu den asiatischen Mächten auch sind, so wenig darf Brüssel die legitimen Interessen Europas opfern. Und dazu zählt insbesondere der Schutz europäischer Arbeitsplätze vor asiatischen Dumpinlöhnen“, schloß Mölzer.

jeudi, 21 octobre 2010

Ashtons Iran-Initiative darf keine aussenpolitische Eintagsfliege bleiben

Ashtons Iran-Initiative darf keine außenpolitische Eintagsfliege bleiben

 

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Ziel Brüssels muß ein atomwaffenfreier Naher und Mittlerer Osten sein – Insbesondere die islamische Atommacht Pakistan und Indien müssen abrüsten

CatherineAshton.jpgAls äußerst positiv bezeichnete heute der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer, den Vorschlag der EU-Außenbeauftragten Catherine Ashton, Mitte November in Wien mit dem Iran Gespräche über dessen umstrittenes Atomprogramm zu führen. „Ashtons Vorstoß ist ein außenpolitischer Gehversuch der Europäischen Union, die sich offenbar doch etwas aus der erdrückenden Umklammerung der USA lösen will. Es bleibt nur zu hoffen, daß die Einladung an den Iran keine Eintagsfliege bleibt“, so Mölzer, der auch Mitglied des außenpolitischen Ausschusses des Europäischen Parlaments ist.

Zu den beabsichtigten Verhandlungen mit Teheran sagte der freiheitliche EU-Mandatar, daß diese mehr als das iranische Atomprogramm umfassen müssen. „Natürlich wäre es wünschenswert, wenn der Iran Zweifel an der friedlichen Nutzung der Kernenergie ausräumt. Aber das darf nicht darüber hinwegtäuschen, daß es in der Region bereits Atommächte gibt, nämlich Israel, Pakistan und Indien“, betonte Mölzer.

Daher müsse das Ziel der Nahostpolitik Brüssels die Schaffung eines atomwaffenfreien Nahen und Mittleren Ostens sein, forderte der freiheitliche Europaparlamentarier. „Eigentlich sollte statt dem Iran Pakistan im Mittelpunkt des weltweiten Interesses stehen. Denn Pakistan ist nicht nur eine Atomwaffenmacht, sondern auch islamistisch unterwandert und befindet sich darüber hinaus in einem Dauerstreit mit Indien. Hier eine Abrüstungsinitiative zu starten, sollte oberste Priorität haben“, schloß Mölzer.

lundi, 18 octobre 2010

Ayodhya ou l'honneur perdu des historiens...

 

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 Koenraad Elst:

Ayodhya ou l’honneur perdu des historiens

 

Dans la querelle historique entre les prédicateurs islamistes et le reste du monde, il y eut un grave moment de crise, lorsqu’il s’est s’agi, pour les premiers, de contester la légitimité d’un temple hindou ou d’une mosquée musulmane à Ayodhya. Cette querelle a connu son apogée entre 1986 et 1992. L’édifice contesté s’est retrouvé sous les feux des médias quand des militants hindous l’ont rasé le 6 décembre 1992.

Ayodhya est un important centre de pèlerinage hindou. Selon la tradition, c’est le lieu de naissance du héros Rama, incarnation du dieu Vishnou. Un temple y avait été édifié jadis et, plus tard, il fut remplacé par une mosquée, construite à partir de 1528 selon une inscription sur le portail d’entrée. La mosquée se trouvait donc là depuis plus de quatre siècles. Dans l’architecture de cette mosquée, on avait inclus des colonnes provenant de l’ancien temple, afin de bien mettre en exergue la victoire de l’islam sur le paganisme indien. En 1885, les Hindous entamèrent une procédure, afin de récupérer le site mais en 1886, un juge britannique a tranché comme suit : « C’est grave qu’un temple ait été détruit pour édifier cette mosquée, mais vu que cela s’est passé il y a plusieurs siècles, il est trop tard désormais pour y remédier ». En 1934, les autorités britanniques font fermer la mosquée à la suite d’émeutes organisées par les fidèles de la religion hindouiste. En 1949, les Hindous placent un autel avec des effigies de leurs dieux dans l’édifice. En 1950 commence un nouveau procès où les Hindous, puis, plus tard, les Musulmans, vont exiger que le site leur soit octroyé.

A titre temporaire, le tribunal, en charge de juger l’affaire, n’a ordonné que quelques mesures pratiques. Pendant une seule journée par an, un prêtre hindou pouvait avoir accès à l’édifice, y officier et y pratiquer les rituels traditionnels. De ce fait, l’édifice  se trouvait rouvert en tant que temple hindou. Les Hindous, cependant, voulaient, sur le site de la naissance de Rama, un véritable temple de leur religion, construit selon des critères architecturaux propres à la tradition indienne, ce qui impliquait la destruction de la mosquée musulmane. Quand la mosquée s’y trouvait encore, les Hindous ont décidé de placer la première pierre du futur nouveau temple, précisément à la date du 9 novembre 1989, le jour même où tomba le Mur de Berlin.

Négationnisme

Cet acte symbolique a eu lieu avec l’approbation du Parti du Congrès, alors au pouvoir. Celui-ci procéda à un véritable maquignonnage, en prévoyant d’accorder une grande faveur aux Hindous et un éventail de petites faveurs pour les Musulmans (notamment  la réforme de la législation sur le divorce, en l’infléchissant dans un sens carrément musulman). Les intellectuels de gauche, dominants dans les secteurs académiques, ont entamé, à ce moment-là, une campagne pour un « sécularisme dur » ; il faut savoir que la notion de « sécularisme », en Inde, équivaut à la notion de « multiculturalisme » que l’on cherche à imposer en Occident. Le « sécularisme » multiculturel indien a pour corollaire automatique le soutien à l’islam. Dans le cadre de cette campagne séculariste, multiculturaliste et islamophile, l’intelligentsia de gauche a commencé à nier de manière systématique et à grands renforts de discours tonitruants le récit hindou, qui se voulait reflet de la réalité historique, sur la destruction effective du temple. Ce qui avait fait jusqu’alors consensus et qui se basait sur le témoignage unanime de nombreuses sources, a été, du jour au lendemain, considéré comme une aberration et comme le produit d’une « propagande haineuse des fondamentalistes hindous ».  

Les médias indiens et, à leur suite, les médias de la planète entière, ont adopté cette vision négationniste. Les historiens se sont tenus cois ou se sont pliés à la ligne que leur dictait leur parti. Un indianiste néerlandais qui, peu de temps auparavant, avait effectué des recherches à Ayodhya même, et avait confirmé dans l’un de ses ouvrages la thèse de la destruction du temple de Rama, fut accusé de faire le jeu des fondamentalistes hindous et se récusa misérablement. L’Encyclopaedia Britannica, dans son édition de 1989, rappelait encore les faits et expliquait sobrement et sans emphase que le temple avait été détruit, a changé son fusil d’épaule dans ses éditions ultérieures et évoqué les « affirmations des fondamentalistes hindous ».

A la fin de l’année 1990, le gouvernement invite les deux parties à mandater des savants et des érudits pour participer à un débat. Les représentants de la partie musulmane sont arrivés sur le podium de discussion totalement impréparés, tout en étant sûrs et confiants que leurs adversaires n’allaient évoquer que des « mythes ». Malheureusement pour eux, les défenseurs de la partie hindoue sont arrivés munis d’un dossier bien étayé de documents historiques et de rapports d’archéologues, qui confirmaient les anciennes thèses, qui avaient toujours fait consensus. Après le débat, l’alliance musulmane-marxiste des adversaires de la thèse du temple ont encore composé vaille que vaille un opuscule qui devait servir de réponse aux Hindous. Dans ce petit ouvrage, ils n’avancent pas le moindre fait qui soit en mesure de contredire le scénario mis en avant par les Hindous ou qui pourrait constituer l’amorce d’un scénario alternatif. Leur argumentaire se bornait à essayer de minimiser les preuves pourtant patentes avancées contre eux, en n’en sélectionnant que quelques-unes et en ne les présentant que de manière schématique, tandis qu’ils laissaient la grande majorité des arguments de leurs adversaires sans la moindre réponse. Les médias ont passé totalement sous silence cette victoire hindoue dans la querelle où, pourtant, les défenseurs de l’iconoclasme musulman ont été mis échec et mat.

La preuve par l’archéologie

Et pourtant, fin septembre 2010, la vérité a éclaté au grand jour. Le jeudi 30 septembre 2010, le tribunal d’Allahabad a enfin prononcé ses conclusions dans cette affaire qui traîne maintenant depuis plus de soixante ans. L’affaire avait rebondi lorsque le gouvernement du premier ministre Narasimha Rao avait demandé à la Cour Suprême de donner son avis sur le fonds historique de la question. Au contraire du grand public qui ne s’abreuve qu’aux journaux, Rao était parfaitement bien au courant du résultat du débat entre experts et il s’attendait à ce que les juges du plus haut tribunal indien, après étude du dossier, donnassent raison à la thèse des défenseurs du temple, afin que l’on puisse enfin procéder à la reconstruction de celui-ci et que la question en suspens soit réglée. La Cour Suprême a transmis l’affaire au Tribunal d’Allahabad, qui, lui, n’a eu qu’une envie : se débarrasser de ce dossier fort épineux.

Les juges d’Allahabad ont donné pour mission à l’instance principale des archéologues indiens, l’ « Archeological Survey of India » (ASI), de procéder à des fouilles extrêmement précises. En 2003, l’ASI mettait à jour les soubassements d’un vaste édifice ancien qui, vu le nombre d’objets d’art à fonction cultuelle qui y furent exhumés, ne pouvait être rien d’autre qu’un temple. Ces fouilles ont confirmé les résultats de travaux archéologiques antérieurs et corroboré les témoignages offerts par d’innombrables documents : et, bien entendu, sur le site préalablement présumé du temple de Rama, contesté par les Musulmans, il y a bel et bien eu un temple.

Koenraad ELST.

(article paru dans « ‘ t Pallieterke », 6 octobre 2010).

L'Occident américanisé veut-il un "anti-terrorisme politiquement correct"?

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L’Occident américanisé veut-il un « anti-terrorisme politiquement correct » ?

Début octobre 2010, le secrétaire du conseil russe de sécurité, Nicolaï Patrouchev a déclaré, devant les représentants d’un sommet rassemblant 44 pays à Sotchi : « L’objectif principal d’Al Qaeda est la création d’un califat islamique. Le réseau terroriste vise les pays d’Asie centrale, d’Afrique du Nord ainsi que les républiques caucasiennes de la Fédération de Russie. Les peuples musulmans de ces régions sont dès lors invités à renverser leurs gouvernements ». Patrouchev, qui a derrière lui une longue carrière dans les services soviétiques et russes, et officie aujourd’hui au FSB, est convaincu d’un fait : Al Qaeda déploie des activités terroristes dans le monde entier, ce qui indique que cette organisation dispose de structures internationales efficaces, dirigées en ultime instance par un chef ou du moins une direction unique.

Cette déclaration et cette conviction de Patrouchev ne doivent pas nous faire oublier que presque tous les attentats commis dans le monde sont attribués par les médias à Al Qaeda ou à ses filières et avatars. Or les services américains et russes ne jugent pas ces filières et avatars de la même façon. Leurs analyses sont très souvent divergentes. Exemple : le Hizb ut-Tahrir, soit le « Parti de la libération », qui a pour but avoué d’édifier le califat universel, est considéré par les Russes et les dirigeants des pays d’Asie centrale comme une organisation terroriste dangereuse. Pour la Maison Blanche, ce n’est pas le cas. Ce groupe de la mouvance djihadiste a pignon sur rue aux Etats-Unis. Il y est toléré et nullement banni.

L’indulgence américaine pour certains avatars avoués d’Al Qaeda est suspecte. En effet, quand l’exécutif russe use de la manière forte dans les affrontements qui l’opposent aux terroristes islamistes, l’Occident atlantiste s’insurge, avec gros trémolos dans la voix, contre la « barbarie russe ». Récemment encore, en septembre 2010, la Présidente de la sous-commission pour les droits de l’homme du Parlement européen, Heidi Hautala, s’est déclarée fort préoccupée par la situation dans le Caucase septentrional, région qui fait partie de la Fédération de Russie. Madame Hautala se trouvait, il y a quelques semaines, à Beslan, la ville martyre de l’Ossétie du Nord : elle n’a trouvé qu’à se lamenter sur les retards pris par la Russie à appliquer les critères des droits de l’homme dans le Caucase et a fait inscrire ses inquiétudes à l’ordre du jour de consultations bilatérales entre la Russie et l’UE.

 

En clair, ces réticences atlantistes, exprimées par Madame Hautala, ne participent pas d’une compassion anticipée et réelle pour ceux qui seraient éventuellement victimes d’un arbitraire de l’exécutif, comme elle ne relèvent pas davantage d’un sentiment de pitié pour les enfants innocents massacrés par centaines par les terroristes islamo-tchétchènes. Non, ce discours vise à faire pression sur la Russie pour qu’aucune mesure de lutte efficace contre le terrorisme ne soit prise dans la région. Et, par extension, dans toutes les républiques musulmanes d’Asie centrale. Il s’agit dès lors d’une intervention indirecte dans les affaires intérieures de la Fédération de Russie et des républiques d’Asie centrale.

Il est étrange, aussi, que jamais les instances moralisatrices de l’UE ne se soient insurgées contre les entorses apportées à la liberté de circulation et au droit d’association et contre les autres mesures vexatoires (visa, fouilles corporelles, mesures policières agressives dans les aéroports américains à l’encontre de citoyens européens totalement innocents) prises aux Etats-Unis à la suite des attentats de septembre 2001. Sous prétexte qu’Al Qaeda a commis des attentats à New York, des citoyens européens sont malmenés aux Etats-Unis, souvent sous des prétextes futiles ou totalement idiots, sans que l’UE, le Parlement européen ou la sous-commission dans laquelle s’agite Madame Hautala ne croient bon de protester vigoureusement et d’interpeller les autorités américaines. Deux poids, deux mesures.

La Russie et les pays d’Asie centrale sont également des victimes d’Al Qaeda. Les donneurs de leçons atlantistes n’auraient pourtant, en toute logique, rien à récriminer contre les mesures préventives et répressives que ces pays pourraient prendre : les Etats-Unis ont, eux aussi, pris des mesures, parfois draconiennes. Et si les Etats victimes du terrorisme rampant que sont la Fédération de Russie et les pays d’Asie centrale se montraient trop laxistes à l’endroit des terroristes, ils pourraient être accusés par les mêmes atlantistes de porter assistance à Al Qaeda et deviendraient alors, par une simple pirouette dialectique, des « Etats voyous », au même titre que l’Iran ou la Syrie.

Le chef de la diplomatie russe, Sergueï Lavrov, a profité du sommet de l’ASEM (Asia Europe Meeting), pour demander aux Occidentaux de mettre un terme à leur politique hypocrite de deux poids, deux mesures dans quelques questions épineuses, celles du terrorisme, du trafic de drogues et de la criminalité internationale. Le camp atlantiste parle en effet beaucoup de morale mais couvre des pratiques qui ne sont aucunement morales.

Source : Pietro FIOCCHI (p.fiocchi@rinascita.eu ), in : Rinascita, Rome, 6 octobre 2010 ; http://www.rinascita.eu ).        

dimanche, 17 octobre 2010

Confrontation en Mer Jaune

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Albrecht ROTHACHER :

Confrontation en Mer Jaune

 Forte tension entre la Chine et le Japon : l’Empire du Milieu renonce à ses réticences en politique étrangère

 

Spratly_Is_since_NalGeoMaps.pngPendant deux ans, la Chine et le Japon s’étaient efforcés de provoquer un dégel dans leurs relations auparavant fort chargées de contentieux. Cette période connaît désormais sa fin. Il y a à peu près trois semaines, un bateau de pêcheurs chinois en train de prendre du thon a heurté deux patrouilleurs côtiers japonais à proximité des petites îles rocheuses Sentaku (en chinois : Diaoyu), dont les eaux avoisinantes sont revendiquées tant par la Chine que par le Japon. Les Japonais ont rapidement relâché les quatorze marins de l’équipage mais maintenu en détention le capitaine vindicatif, un certain Zhang Qixiong. Début octobre, il se trouvait encore en détention préventive.

 Ce genre d’incident n’est pas rare vu les nombreuses frontières maritimes contestées de la région et la Chine aime les monter en affaires d’Etat. L’ambassadeur du Japon a été convoqué cinq fois. Tous les contacts de haut niveau ont été interrompus. Habituellement calme et pondéré, le premier ministre chinois Wen Jiabao n’a pas « trouvé le temps », lors d’un sommet de l’ONU à New York, de rencontrer son homologue japonais Naoto Kan.

Pourtant, il y a deux ans, à la suite de la visite du Président Hu Jintao à Tokyo, on pouvait imaginer que les deux protagonistes d’aujourd’hui allaient enfin mettre leurs contentieux territoriaux entre parenthèses et concentrer leurs efforts sur l’exploitation des gisements de pétrole et de gaz dans la zone litigieuse. La société chinoise d’exploitation offshore CNOOC avait rapidement commencé à forer et à édifier, dans la foulée, une plateforme pour pomper les hydrocarbures. Le Japon n’a pas obtenu grand chose du gaz extrait du sol marin ni du partage des bénéfices, pourtant dûment promis.

Pour la Chine, ces îles rocheuses, inhabitées et situées entre Okinawa et Taiwan, font partie du socle continental chinois et constituent un fragment du « sol sacré » de l’Empire du Milieu. Pour le Japon, elles font partie depuis 1885 des terres contrôlées par l’Empire du Soleil Levant et donc du territoire souverain nippon. En 1971, les Etats-Unis les avaient rendues au Japon, en même temps qu’Okinawa, l’île dont la conquête avait coûté tant de vie en 1945. Okinawa et les Iles Sentaku avaient, du coup, cessé d’être un protectorat américain. Lors de la visite de Wen Jiabao à Tokyo en mai 2010, les Chinois avaient manifesté de la bonne volonté. Pourquoi ce changement brusque d’attitude ?

Premier facteur à prendre en compte : la lutte pour le pouvoir entre dans une nouvelle phase d’intensité à Pékin actuellement, avec pour objet la succession en 2012 du Président Hu Jintao. Deuxième facteur : les partisans de la ligne dure, dans l’armée et dans la marine, ont aujourd’hui le vent en poupe. Troisième facteur : les réformateurs modérés autour du premier ministre Wen ne veulent pas avoir l’air de « poules mouillées » devant l’ennemi héréditaire japonais. Quoi qu’il en soit, la Chine se montre toujours très agressive quand il s’agit de conflits frontaliers. Ainsi, la Russie du Président Poutine avait rendu en 2004 les îles du fleuve Oussouri, prises par les troupes soviétiques à la suite d’une bataille sanglante en 1969. Ce fut un geste d’apaisement à l’endroit de la Chine, alors très amie de la nouvelle Russie. Le Kirghizistan, lui aussi, avait « volontairement » rendu à la Chine quelques chaines de montagnes qu’elle revendiquait. Face à l’Inde, la Chine revendique l’ensemble de la province frontalière de l’Arunachal Pradesh, peuplée d’un million de Tibétains et de ressortissants de tribus birmanes. Cette province est constituée de montagnes et de forêts vierges. Elle se situe sur le flanc sud de l’Himalaya et les Chinois la nomment « Tibet méridional ». Dans la Mer de Chine Méridionale, la Chine cherche à obtenir une frontière maritime jusqu’à l’Equateur, en englobant les îles indonésiennes de Natuna, ce qui heurte les intérêts de tous les pays riverains de cette mer : le Vietnam, les Philippines, Brunei, l’Indonésie et la Malaisie. La Chine est en train de construire, sur son flanc sud, c’est-à-dire sur l’Ile d’Hainan, une énorme base de sous-marins qui devrait appuyer ses revendications en Mer de Chine Méridionale. Sur le plan militaire, il n’y aura pas que ces sous-marins : la Chine aligne désormais une flotte de haute mer, nouvellement équipée et parfaitement apte à faire face à certaines éventualités. Face à l’Inde, les Chinois construisent une base navale sur le territoire de l’ennemi héréditaire, le Pakistan. De même, en Birmanie (Myanmar). Elle « drague » à fond le Sri Lanka, tombé en disgrâce dans la sphère occidentale à cause des entorses aux droits de l’homme qui s’y pratiquent.

Hillary Clinton, ministre américaine des affaires étrangères, a rassuré Naoto Kan à New York que les Etats-Unis considèreront toute violence contre les îles Sentaku comme un cas pouvant faire jouer le pacte d’assistance, scellant l’alliance nippo-américaine. Aux pays de l’ASEAN, inquiets, Hillary Clinton a proposé les bons offices des Etats-Unis dans toutes les questions relatives aux matières premières abondantes en Mer de Chine Méridionale. Elle a également suggéré une conférence multilatérale pour résoudre les problèmes.  Or c’est bien là la dernière chose que veulent les Chinois, sûrs de leur puissance. Ils préfèrent intimider les petits pays de l’Asie du Sud-Est en les ciblant un à un, lors de pourparlers bilatéraux. Toutes les formes de bons offices proposées par les Etats-Unis sont carrément rejetées et considérées par les Chinois comme partisanes, surtout qu’elles émanent d’une puissance extérieure à l’espace asiatique, qui veut la liberté des mers et des voies maritimes et est bien présente dans le Pacifique avec sa 7ème Flotte. La nouvelle doctrine chinoise part du principe que la Mer de Chine Méridionale fait tout autant partie du noyau territorial chinois que le Tibet ou Taiwan. En clair, cela signifie que les prétentions chinoises sur la Mer de Chine Méridionale ne sont pas négociables. Sur le plan historique pourtant, la Chine ne peut pas vraiment justifier ses revendications, mis à part quelques cartes maritimes imprécises ou quelques tombes de pêcheurs échoués sur des îles inhabitées.

Bientôt, la marine américaine organisera des manœuvres communes avec la Corée du Sud dans une partie de la Mer Jaune, que la Chine considère comme faisant partie de sa propre zone maritime. Cette démonstration de force servira surtout à intimider la satrapie prochinoise qu’est la Corée du Nord qui, au printemps dernier, avait coulé une corvette sud-coréenne. Mais en intimidant la Corée du Nord, on cherche évidemment à intimider la grande puissance protectrice de l’Etat « voyou ». Même la Russie, jusqu’ici l’allié le plus fidèle de la Chine et son principal fournisseur d’armes, se sent menacée par les flots d’immigrants chinois en Sibérie, terre faiblement peuplée. Elle adopte du coup une attitude pro-occidentale et prend ses distances.

Le grand réformateur Deng Xiaoping n’avait eu de cesse d’avertir ses camarades de parti : il fallait attendre l’année 2020, quand la Chine serait suffisamment forte pour résoudre ses problèmes territoriaux, sans craindre une coalition ennemie qui aurait procédé au préalable à son encerclement. L’impatience impériale a été fatale à l’Allemagne en 1914 et au Japon en 1941, car les grandes puissances établies avaient décidé de juguler les velléités expansionnistes des puissances chalengeuses et indésirables. Il semble que les héritiers du Bismarck chinois devront bientôt méditer ses leçons.

Albrecht ROTHACHER.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°40/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).

vendredi, 15 octobre 2010

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

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Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

Ex: http://www.massimofini.it/

Testo integrale dell'articolo pubblicato sul Fatto il 12 ottobre 2010 e ridotto per ragioni di spazio:

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo «Che cosa ci stiamo a fare lì?». Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgaziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono «che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Omar, era contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricaute sui civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la simpatia e la collaborazione della popolaione sul cui appoggio si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani, nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita "vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi, bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera soprattutto degli americani ma anche, quando è il caso, degli altri contingenti?

Nel 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in funzione antisovietica. Ma Bin Laden cotituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando ne 1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah Omar, attraverso il suo numero due Waatki inviato appositamente a Washington dove incontrò due volte il presidente americano, si disse d'accordo purchè la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi, ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno fa, ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quella Jihan internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Omar, come scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo, giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i Talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Afghanistan doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla tradizione di quella gente come invece lo  per noi. In ogni caso la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del Mullah Omar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro per farne carne di porco. Omar, a capo di altri "enfants de pays", raggiunse il luogo, liberò le ragaze, sconfisse i banditi e ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese). Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in campio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere. Una decisione così efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda il prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non gli fosse andata più bene vrebber rovesciato il governo del Mullah Omar perchè in Afghanistan non c'è uomo che non posssieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le stime dell'Onu non sono credibili perchè una recente inchiesta ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di sopra di ongi sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale.

Ma c'è di peggio. Armando e addetrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è che il buon senso degli afgani prevalga. Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "soluzione americana". E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe sovietiche che occuparono l'Afghanistan: «Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio, solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei popoli.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell' "armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10 ottobre: perché la lealtà all' "amico americano" ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di pretigio. Gli spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno, che portare la democrazia in Afghanistan, se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per qusta guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situzioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Massimo Fini

lundi, 04 octobre 2010

Le gouvernement turc protège les sociétés parallèles turques en Europe

Andreas MÖLZER :

Le gouvernement turc protège les sociétés parallèles turques en Europe

 

Le premier ministre turc Erdogan entendait naguère inoculer à la culture européenne quelques solides germes turcs. Et voilà maintenant que le ministre turc des affaires étrangères Davutoglu veut « multiculturaliser » l’Europe. Déclarations ou intentions qui devraient conduire à une rupture définitive des négociations en vue de l’adhésion turque à l’UE.

 

mafiaturque.jpgL’UE devrait immédiatement rompre les négociations en vue de l’adhésion turque, a exigé le chef de la délégation libérale autrichienne (FPÖ) au Parlement Européen, Andreas Mölzer, vu les déclarations du ministre turc des affaires étrangères Ahmet Davutoglu, lors d’une interview accordée aux quotidiens autrichiens. « Lorsque Davutoglu exige que l’Europe doit devenir multiculturelle et affirme que si les Turcs étaient poussés dans les marges de la société européenne, la mère patrie turque devraient ouvrir la voie aux sociétés parallèles turques », a rappelé Mölzer.

 

De toute évidence, Ankara ne voit aucune nécessité pour les Turcs, vivant en Europe, de s’assimiler ou de s’intégrer, ajoute le mandataire FPÖ du Parlement Européen. « Les déclarations de Davutoglu ne sont rien d’autre qu’un complément aux propos tenus par le premier ministre turc Erdogan, qui, c’est désormais de notoriété publique, avait déclaré, dans son fameux et controversé discours de Cologne en 2008, que toute assimilation d’un Turc dans la société allemande procédait « d’un crime contre l’humanité » et qu’il entendait inoculer des germes turcs dans le corps de la culture européenne. Ce que laissent entendre Erdogan et Davutoglu n’est rien moins qu’une menace : ils laissent prévoir ce qui adviendra à l’Europe si un jour la Turquie devient membre de l‘UE », nous avertit Mölzer.

 

De surcroît, rappelle le mandataire FPÖ, Ankara ne comprend qu’une seule chose quand on évoque le partenariat : faire passer exclusivement les positions turques. « Les Turcs ne connaissent ni compromis ni concessions mais attendent de l’Europe et compromis et concessions. De ce fait, on peut en conclure qu’une adhésion turque à l’UE n’européaniserait pas la Turquie, mais turquiserait l’Europe : voilà pourquoi il faut rompre toutes les négociations visant l’adhésion sans pour autant abandonner les pourparlers pour aboutir à un partenariat privilégié », a conclu Mölzer.

 

(communiqué de presse paru sur http://www.andreas-moelzer.at/ ).   

vendredi, 01 octobre 2010

L'Afghanistan, coeur géopolitique du nouveau grand jeu eurasiatique

L’Afghanistan, cœur géopolitique du nouveau grand jeu eurasiatique

Par Aymeric Chauprade

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Le nouveau grand jeu en Afghanistan n’est plus bipolaire. Il n’est plus la vieille opposition du XIXe siècle, dont on a tiré la formule de «Grand Jeu », entre l’Angleterre présente aux Indes et la poussée russe vers les mers chaudes ; il n’est pas plus réductible à l’opposition du XXe siècle entre les intérêts américains et russes.

Le nouveau grand jeu en Afghanistan est à l’image de la géopolitique mondiale : il est multipolaire.

Trois grandes puissances mondiales s’entrechoquent en Afghanistan : Etats-Unis, Russie, Chine. Deux puissances régionales s’y livrent ensuite, par délégation, une guerre féroce : Pakistan et Inde. Dans ces rivalités de premier ordre, interfèrent des intérêts de second ordre, mais qui peuvent influer fortement sur le jeu afghan : les intérêts de l’Iran, ainsi que ceux des républiques musulmanes indépendantes, ex-soviétiques (en particulier, pour des raisons à chaque fois spécifiques, l’Ouzbékistan, le Kirghizstan et le Turkménistan).

 

Combiné à ces rivalités géopolitiques classiques de trois ordres (rivalités identitaires, stratégiques, énergétiques), le jeu du fondamentalisme sunnite est également à prendre en compte. L’islamisme est un acteur global, une créature ancienne, mais réveillée et excitée durant les années 1980 et 1990 par les apprentis-sorciers américains et pakistanais de la CIA et de l’ISI (Inter Services Intelligence), au point de finir par échapper à l’autorité de ses maîtres, sans pour autant avoir complètement rompu avec eux.

Pour quelles raisons le grand jeu en Afghanistan est-il triangulaire ?

Tout d’abord, parce que les Etats-Unis veulent refouler d’Asie centrale au moins autant la Chine que la Russie.

Ensuite, parce que la Russie veut non seulement limiter l’influence de Washington dans ses ex-républiques musulmanes soviétiques aujourd’hui indépendantes, mais également empêcher la Chine de combler le vide que les Américains laisseraient s’ils s’avisaient de quitter l’Afghanistan. Car pour la Russie, l’influence de Pékin en Asie centrale, ce n’est pas la parenthèse artificielle d’une Amérique projetée trop loin de sa terre ; c’est la réalité implacable d’une histoire millénaire, celle des routes de la Soie.

Enfin, le grand jeu en Afghanistan est triangulaire, parce que la Chine ne sera la première puissance géopolitique mondiale que lorsqu’elle aura chassé la flotte américaine du Pacifique et que ses trains rapides atteindront les rivages de l’Atlantique, en France, après avoir parcouru des milliers de kilomètres à travers l’Asie centrale et les plaines d’Europe.

Les Etats-Unis tentent aujourd’hui d’éliminer une force, les Talibans, qu’ils ont contribué à amener au pouvoir à Kaboul en 1997, avant de les en déloger en 2001.

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Les Talibans sont l’aboutissement ultime d’une stratégie de radicalisation des mouvements islamistes, entamée à la fin des années 1970 par l’ISI soutenu par la CIA, au profit d’un triple djihad : contre les chiites pakistanais menacés par l’influence de la Révolution islamique iranienne, contre les communistes pro-russes en Afghanistan, contre les Indiens dans le Cachemire.

Après que des seigneurs de la guerre afghans soient devenus, comme résultat de cette stratégie, à la fois des seigneurs du djihad et de la drogue (lire l’encadré [1] pour comprendre l’importance essentielle du « facteur drogue »), et que les Soviétiques aient reflué (1989), les Américains se sont aperçus que leur société pétrolière UNOCAL n’arriverait jamais à tendre un gazoduc, du Turkménistan au Pakistan, à travers un territoire afghan tribalisé, rançonné par des clans en lutte pour le contrôle du pouvoir politique et de l’héroïne.

Leurs amis pakistanais de l’ISI, également agacés de ne pouvoir contrôler des chefs de guerre féodaux turbulents, ont alors suggéré les Talibans comme solution. Des fanatiques absolus, essentiellement issus de l’ethnie majoritaire d’Afghanistan, les Pachtouns (ethnie divisée par la ligne Durand de 1893, qui deviendra la frontière entre Afghanistan et Pakistan), décidés à imposer la chape de plomb d’un « islam pur des origines », au-dessus des clans, et qui présentaient l’avantage, aux yeux du gouvernement démocrate de William Clinton qui les soutint dès 1994, d’être une solution d’ordre et un interlocuteur unique avec lequel négocier le passage des hydrocarbures.

Puis les Américains se sont fâchés avec les Talibans en 1998, un an après leur arrivée, et c’est ainsi que s’est nouée l’alliance entre les Talibans et Oussama Ben Laden, semble-t-il également fâché depuis lors avec la CIA.

En 2001, en se projetant en Afghanistan, et pour cela également en Ouzbékistan et au Kirghizstan, quels avantages géopolitiques Washington pouvait-il attendre ?

A ce moment, le Groupe de Shanghaï, constitué par les Chinois et les Russes, coopérait fortement dans la lutte contre le terrorisme islamiste, mais également dans le domaine énergétique. L’irruption des Etats-Unis brisa cette dynamique eurasiatique et contribua à repousser la Chine pour quelques années.

Aujourd’hui, la Chine est revenue en force. Elle est, depuis 2009, à la fois le premier partenaire commercial de l’Asie centrale ex-soviétique et le premier fournisseur de l’Iran, devant l’Allemagne qui l’avait été ces vingt dernières années. Or, Moscou n’entend pas voir les Américains remplacés par les Chinois.

Quelle est alors la stratégie des Russes ? Laisser les Américains contenir l’islamisme en Afghanistan, mais devenir incontournables pour eux, stratégie identique à celle suivie sur le dossier nucléaire iranien. D’où le soutien officiel de la Russie aux opérations de l’OTAN en Afghanistan ; d’où, également, l’accord russo-américain de transit aérien de juillet 2009, qui, à mi-avril 2010, avait permis d’acheminer 20 000 militaires occidentaux en Afghanistan (en théorie, l’accord autorise une moyenne de 12 vols américains par jour mais, un an après, la moyenne n’est que de 2).

Pour Moscou, obliger les Américains à passer par la Russie, revient à les chasser de sa périphérie musulmane.

Le 7 octobre 2001, les Etats-Unis avaient signé un accord antiterroriste avec Tachkent (l’Ouzbékistan partage une longue frontière avec l’Afghanistan). Les bases aériennes et l’espace aérien du pays le plus peuplé de l’Asie centrale ex-soviétique leur étaient ouverts. Un an plus tard, le 5 décembre 2002, Washington prenait pied également au Kirghizstan grâce à la base de Manas. Mais en 2005, après la répression d’Andijan (une région turbulente à l’est du pays, où les islamistes sont forts), et refusant l’ingérence démocratique américaine, les Ouzbeks décidaient de se tourner de nouveau vers la Russie (et la Chine) et contraignaient l’armée américaine à plier bagages.

Aujourd’hui, la base de Manas au Kirghizstan et son corridor de 1500 km par voie terrestre jusqu’en Afghanistan, constitue la seule base arrière solide pour les Américains. Environ 35 000 soldats transitent entre Manas et l’Afghanistan chaque mois. La base assure aussi le ravitaillement en vol des avions militaires et apporte beaucoup de sang (100 kg en moyenne chaque nuit, par des vols entre Manas et Kandahar).

Mais les Russes admettent difficilement cette implantation. Le 23 octobre 2003, le président Poutine inaugurait une base aérienne russe de soutien à Kant, à quelques kilomètres de la base américaine.

Ces dernières années, les Kirghizes, conscient de l’immense valeur stratégique de cette base pour la réussite des opérations en Afghanistan, ont fait monter les enchères entre Moscou et Washington. En 2009, les Russes qui avaient sans doute reçu des assurances, ont versé 2 milliards de dollars sous forme de prêt sans intérêt au Kirghizstan ; non seulement le président Bakiev n’a pas fermé la base, mais il a accepté la présence américaine pour une année supplémentaire, en échange d’un triplement du loyer. Le Kirghize a payé sa crapulerie par son renversement début avril 2010, sans doute avec l’appui discret des Russes.

Quelques jours plus tard, les Américains étaient autorisés à rester un an de plus à Manas. Désormais, cela dépend davantage de Moscou. C’est une donnée essentielle.

Plus le temps passe, moins l’action américaine en Afghanistan ne peut se faire en contournant les Russes. C’est, pour Moscou, une assurance devant la montée des Chinois en Asie centrale ex-soviétique.

On oublie que la Russie est le premier pays à avoir soutenu Washington, le lendemain du 11 septembre 2001, dans son action globale contre le terrorisme islamiste. Poutine ne cherchait pas seulement, comme on l’a dit, l’assurance de ne plus être gêné par les critiques occidentales sur la Tchétchénie. Il cherchait un partenariat équilibré avec Washington face à la montée de Pékin, [partenariat] qui eût été possible si Washington n’avait pas étendu l’OTAN jusqu’aux portes de la Russie en 2002, installé dans la périphérie de Moscou des gouvernements proaméricains (Révolutions colorées de Géorgie en 2003, d’Ukraine en 2004) et convaincu d’anciens pays soviétisés (République tchèque et Pologne) d’accepter un bouclier anti-missiles sur leur sol.

Aujourd’hui, la donne est redevenue favorable aux Russes : si les Américains ont reculé sur le bouclier antimissile, c’est qu’ils ont besoin des Russes sur l’Afghanistan et l’Iran, et qu’ils ont aussi perdu l’Ukraine.

Ce que craignent Washington comme Moscou en Asie centrale, dans une perspective de plus longue durée, va au-delà du retour d’un islamisme fort : c’est la domination de la Chine. Investissant dans les hydrocarbures et l’uranium du Kazakhstan, dans le gaz du Turkménistan, construisant des routes pour exporter ses productions vers le Tadjikistan et le Kirghizstan, la Chine est devenue le premier partenaire commercial de l’Asie centrale ex-soviétique en 2009.

Washington est au moins autant en Afghanistan dans le cadre de sa vaste stratégie globale de contrôle de la dépendance énergétique chinoise et d’encerclement de l’Empire du Milieu (voir notre article dans le n°2 de la NRH, sept. Oct. 2002 : « Comment l’Amérique veut vaincre la Chine », que les années passées ont confirmé), que dans sa lutte contre un islamisme devenu incontrôlable.

La Chine a son Turkestan, le Xinjiang, avec sa minorité turcophone ouïghour que les Etats-Unis tentent d’agiter. Elle ne peut relier sans risque son Turkestan à l’ex-Turkestan russe, qu’à la condition de jouir d’une influence politique et économique forte dans le second. Ainsi, ni l’Afghanistan, ni l’Asie centrale ex-soviétique ne risqueraient d’être des bases arrière du séparatisme ouïghour. Ainsi, son grand projet de « China’s Pan-Asian railway », ces routes de la Soie du XXIe siècle, qui mettraient Londres à deux jours de train de Pékin deviendrait possible avant 2025 [2].

En 2006, dans un pays sous tutelle américaine, la Chine n’a pas hésité à investir 3 milliards de dollars dans la mine de cuivre d’Aynak, une des plus grandes du monde. En 2010, les présidents chinois Hu Jintao et afghan Hamid Karzaï ont signé d’importants accords économiques et commerciaux et l’Afghan a commencé à menacer les Américains de se tourner vers Pékin, alors que ceux-ci critiquaient la manière dont l’élection présidentielle s’était déroulée.

L’intérêt de la Chine pour l’Afghanistan ne peut qu’aller croissant, depuis qu’Hamid Karzaï a annoncé (le 30 janvier 2010) ce que les Américains savaient depuis longtemps : « les gisements d’hydrocarbures d’Afghanistan valent sans doute plus d’un millier de milliards de dollars », en plus des gisements de cuivre, de fer, d’or, de pierres précieuses, qui restent non exploités. Ainsi, l’Afghanistan n’est plus seulement une route stratégique pour le désenclavement des richesses ; il est aussi un territoire riche en ressources stratégiques.

La Chine n’est pas la seule future superpuissance à regarder vers l’Afghanistan. Depuis la chute des Talibans en 2001, l’Inde a engagé 1,3 milliards de dollars dans la reconstruction de l’Afghanistan, soit dix fois plus que la Chine ; cela fait de New Delhi le premier donateur de la région (signe politique fort : le nouveau Parlement afghan a été financé par l’Inde).

Si les Etats-Unis se retiraient d’Afghanistan, l’Inde pourrait devenir l’allié du régime afghan face aux Talibans. C’est le cauchemar du Pakistan qui, sous pression américaine, doit réduire ses créatures fondamentalistes. L’ISI a façonné des groupes fanatiques pour massacrer l’Indien dans le Cachemire et il est probable que les attentats graves qui ont frappé les intérêts indiens à Kaboul (en 2007 et 2009 contre l’ambassade) soient encouragés par le service pakistanais, lequel s’emploie à pousser l’Inde hors de l’Afghanistan.

Sans l’Afghanistan, le Pakistan a encore moins de profondeur stratégique, ce qui est déjà sa faiblesse face à l’Inde (le déficit en puissance conventionnelle du Pakistan expliquant sa doctrine nucléaire de première attaque). Islamabad a donc comme priorité stratégique absolue d’empêcher la formation d’une alliance stratégique Kaboul-New-Delhi.

L’Inde et le Pakistan, qui se sont fait trois guerres depuis l’indépendance de 1947, mènent une nouvelle guerre par procuration en Afghanistan. La stratégie d’inflammation du rapport entre les deux voisins, menée par les groupes pakistanais les plus radicaux (attentats de Bombay en 2008 et de nombreux autres depuis), a fonctionné.

L’ISI ne peut plus contrôler les monstres qu’il a créés. Et d’ailleurs, comment pourrait-il expliquer à ses monstres de continuer à massacrer les Indiens dans le Cachemire et en Afghanistan, et de se calmer en même temps contre les « mécréants occidentaux» ? Les systèmes politiques reviennent toujours à leurs gènes. Or l’islam radical est au cœur du génome pakistanais.

Cet islam du Pachtounistan (terre des Pachtouns, à cheval sur l’Afghanistan et le Pakistan, notamment les fameuses zones tribales) menace l’équilibre régional et peut-être même au-delà. Il est certain que si les Etats-Unis se désengageaient maintenant, un autre acteur majeur serait contraint de s’engager, dans le but de prévenir le double risque de basculement de l’Afghanistan et du Pakistan (pays doté de l’arme nucléaire) dans les mains d’un régime sunnite fanatique. On voit mal les Russes revenir, ne reste que l’Inde. Mais que ferait alors le Pakistan, si les troupes indiennes débarquaient en force sur le territoire afghan ?

L’Inde a besoin d’une Asie centrale stable, pour satisfaire ses besoins énergétiques. Deux routes d’alimentation essentielles s’offrent à elle : le gazoduc IPI (Iran Pakistan Inde), qui lui amènera du gaz iranien provenant du gisement géant de South Pars dans le Golfe Persique (le Pakistan, après des années d’hésitation a fini par signer en mars 2010 le projet de pipe) ; et le fameux gazoduc TAPI (Turkménistan, Afghanistan, Pakistan, Inde) voulu par UNOCAL, un tuyau lui-même raccordé vers l’Ouest aux autres « routes américaines » (celles qui concurrencent le réseau russe), le corridor transcaspien et le BTC (Bakou Tbilissi Ceyhan).

Les Etats-Unis, qui soutiennent depuis longtemps ce projet de pipe vers l’Inde et l’Asie du Sud-est, depuis le Turkménistan et à travers l’Afghanistan et le Pakistan, veulent absolument doubler l’Iran et empêcher le régime chiite de devenir incontournable pour l’Asie (Chine, Japon, Inde) ; ils n’ont pas pu empêcher le Pakistan de signer l’IPI avec l’Iran, car ils ont besoin de la coopération d’Islamabad dans la lutte contre les Talibans. Ils sont par ailleurs empêchés de réaliser le TAPI, à cause de la situation sécuritaire en Afghanistan.

L’Iran (en plus de la Chine) est bien l’une des cibles que les Américains veulent atteindre depuis l’Afghanistan. Les accusations américaines concernant une hypothétique collaboration entre Téhéran et les Talibans se sont multipliées en 2009 et 2010. Ainsi, l’amiral américain Mullen a parlé (fin mars 2010) de fournitures d’armes et d’entraînement militaire par les Pasdarans. On sait que les Américains remuent aussi le séparatisme baloutche (le peuple baloutche est à cheval sur l’Est de l’Iran, le Sud de l’Afghanistan et l’Ouest du Pakistan) contre Téhéran.

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L’intérêt réel des Iraniens est-il de voir les Talibans triompher en Afghanistan ? Certainement pas. Mieux vaut un Afghanistan infecté, dans lequel les Américains s’engluent sans jamais l’emporter (d’où la possibilité d’éventuels coups de pouce dosés aux Talibans), plutôt que l’installation d’un régime sunnite radical, violemment anti-chiite, à Kaboul. Les intérêts iraniens et pakistanais se rejoignent, d’une certaine manière, dans l’idée suivante : « une bonne dose de Talibans, mais pas trop, de sorte que les Américains restent là où ils sont aujourd’hui ».

Cependant, rien ne prouve que l’Iran aide les Talibans. Pour accuser Téhéran, les Américains s’appuient sur des déclarations de Talibans qui se sont vantés de cette aide. Mais nonobstant même le problème de l’incompatibilité idéologique entre Iraniens et Talibans, on peut imaginer que ces Talibans qui ont intérêt à ce que les Américains ouvrent un second front en Iran, s’amusent à mettre de l’huile sur le feu…

On le voit, nombreuses sont les puissances qui ont intérêt à ce que les Américains restent en Afghanistan sans jamais l’emporter vraiment : Russes, Chinois, Iraniens, Pakistanais, Indiens même. Dans ces conditions, il n’est plus certain que les Américains et les Européens qui les suivent mènent une guerre pour leurs intérêts propres.

En réalité, aucune victoire durable n’est possible en Afghanistan, sans une transformation profonde du Pakistan lui-même. Or, en se démocratisant, le Pakistan a ouvert d’immenses perspectives aux fondamentalistes (contrairement aux régimes anti-islamistes forts d’Asie centrale ex-soviétique). En toute logique, une arme nucléaire qui existe déjà et qui est susceptible de tomber dans les mains de Talibans devrait inquiéter davantage Washington, qu’une arme qui n’existe pas dans les mains d’Iraniens bien plus pragmatiques que les islamistes pachtouns et finalement potentiellement capables d’équilibrer… le danger nucléaire pakistanais.

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Notes :

[1] Cet encadré est manquant dans l’article original, reproduit ici (Note de Fortune).

[2] Ce projet de train à grande vitesse traversant l’Eurasie à travers Asie centrale doit relier 17 pays reliés suivant 3 routes différentes et au total 81 000 km 1/ la route du Sud allant de Kunming sur les contreforts du Tibet en Chine jusqu’à Singapour à travers l’Asie du Sud Est 2/ la route de l’Europe depuis Urumqi (capitale du Xinjiang) jusqu’à l’Allemagne, à travers l’Asie centrale 3/ la route de l’Europe du Sud enfin, depuis Heilongjiang au nord est de la Chine jusqu’à l’Europe du Sud Est à travers la Russie.

Aymeric Chauprade est professeur de géopolitique, directeur de la Revue Française de géopolitique et du site www.realpolitik.tv. Il est l’auteur de l’ouvrage de référence «Géopolitique, constantes et changements dans l’histoire», éd. Ellipses.

Realpolitik.tv

jeudi, 30 septembre 2010

Türkische Regierung ist Schutzherrin türkischer Parallelgesellschaften in Europa

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Türkischer Regierung ist Schutzherrin türkischer Parallelgesellschaften in Europa 

Ex: http://www.andreas.moelzer.at/

Premier Erdogan will europäische Kultur mit türkischer impfen und nun will Außenminister Davutoglu Europa „multikultureller“ machen – Beitrittsverhandlungen sind sofort abzubrechen

Die Europäische Union müsse unverzüglich die Beitrittsverhandlungen mit der Türkei abbrechen, forderte heute der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer, angesichts der vom türkischen Außenminister Ahmet Davutoglu am Wochenende in Interviews mit österreichischen Tageszeitungen getätigten Aussagen. „Wenn Davutoglu verlangt, Europa müsse multikultureller werden, und behauptet, Türken würden in Europa an den Rand der Gesellschaft gedrängt werden, dann soll der Ausbreitung türkischer Parallelgesellschaften der Weg bereitet werden“, betonte Mölzer.

Offenbar sähe Ankara, so der freiheitliche EU-Mandatar, keine Notwendigkeit, dass sich in Europa lebende Türken integrierten oder gar assimilierten. „Davutoglus Aussagen sind nichts anderes als eine Fortsetzung der Äußerungen des türkischen Ministerpräsidenten Erdogan, der bekanntlich in seiner berühmt-berüchtigten Kölner Rede Assimilierung als ‚Verbrechen gegen die Menschlichkeit‘ bezeichnet hatte und der die europäische Kultur mit der türkischen ‚impfen‘ will. Was Erdogan und Davutoglu so von sich geben, ist nichts anderes als eine gefährliche Drohung, was auf Europa alles zukommen wird, wenn die Türkei eines Tages EU-Mitglied sein sollte“, warnte Mölzer.

Außerdem wies der freiheitliche Europa-Abgeordnete darauf hin, dass Ankara unter Partnerschaft ausschließlich die Durchsetzung der eigenen Positionen verstehe. „Kompromissbereitschaft und Nachgeben kennen die Türken nicht, erwarten es aber von Europa. Daher würde ein EU-Beitritt nicht die Türkei europäisieren, sondern Europa türkisieren, weshalb die Beitrittsverhandlungen mit Ankara abzubrechen und Gespräche über eine privilegierte Partnerschaft aufzunehmen sind“, schloss Mölzer.